03 dicembre 2019 15:36

A Milano in queste settimane ci sono due mostre che si parlano a pochi passi di distanza tra loro: la retrospettiva di Giorgio de Chirico a Palazzo Reale e quella di Filippo de Pisis al Museo del Novecento. Un centinaio di metri di acciottolato davanti al Duomo separano le opere di due artisti che oltre a conoscersi e ad apprezzarsi reciprocamente hanno condiviso, malgrado la decina d’anni di differenza, un momento fondamentale della loro formazione.

A tenerli legati è la città di Ferrara: provinciale e asfittica per il giovane de Pisis che lì era nato, incantata e metafisica per il più vecchio de Chirico, che appena tornato in Italia dalla Germania e dalla Francia si rispecchiava nell’eccentrico rinascimento ferrarese, tra le linee spezzate dell’architettura e gli affreschi-rebus di palazzo Schifanoia. De Pisis era un giovane appassionato di letteratura e di poesia, i suoi punti di riferimento erano Leopardi e Pascoli e la pittura moderna per lui era ancora un interesse laterale.

A partire dal 1916, appena ventenne, aveva già sperimentato con collage, tempere e acquarelli d’ispirazione cubista e futurista. E proprio del 1916 è il suo primo olio su cartone, Marina con conchiglie, che mostra già lo schema delle sue classiche nature morte: un piano molto ravvicinato con oggetti accuratamente disposti (in questo caso un frutto, alcune conchiglie e dei sassolini) e una prospettiva che sembra fare da paratia, da quinta teatrale, più che da finestra su un paesaggio.

A sinistra: Natura morta occidentale, 1919. A destra: Il marinaio francese, 1930. (Filippo de Pisis by Siae 2019, Collezione della Fondazione Cariverona/Collezione privata)

De Pisis aveva un modo meticoloso e quasi superstizioso di disporre i suoi oggetti su tovaglie, tappeti, fogli di carta. Li piazzava contro pareti, carte da parati, finestre: le stanze in cui abitava (tra Roma, Venezia, Parigi fino alla clinica psichiatrica di Brugherio dove morirà nel 1956) erano piene di questi altarini domestici che mescolavano manufatti rari e preziosi (vasi orientali, pipe, ventagli, stampe) a più prosaici oggetti domestici (caffettiere, piumini per la polvere, scatole, giornali vecchi). Nelle nature morte di de Pisis c’è più di una traccia di quello che oggi chiameremmo disturbo ossessivo-compulsivo.

Osserviamo la cura feticistica con cui posiziona gli oggetti in Natura morta con martin pescatore (1925), la grazia e lo sberleffo molto dechirichiano con cui giustappone due cipolle di Tropea sotto un ritratto di Socrate e l’empatia simbolista con cui riesce a rendere quel momento in cui i fiori recisi, in vaso di vetro, smettono di essere freschi e cominciano a marcire. A differenza delle nature morte di de Chirico, quelle di de Pisis sembrano contenere anche la dimensione del tempo. De Chirico ferma un momento, i suoi quadri metafisici hanno la fissità enigmatica del quattrocento; de Pisis riesce a rendere un flusso, un passaggio tra un prima e un dopo. È affascinato dalle cose che decadono: i fiori nei vasi, i pesci avvolti nella carte di giornale, la cacciagione che si frolla, un povero tacchino spennato a testa in giù.

Giovanni Comisso in Mio sodalizio con de Pisis, un omaggio alla loro amicizia pubblicato nel 1954, descrive l’entusiasmo del pittore per i pesci in decomposizione. “Lo vidi chinarsi su di un mucchio d’immondizie e raccogliere tre grandi merluzzi marci gettati via dai pescivendoli. Li mise con cura tra le pagine di un Paris-Soir steso per terra e rimase a guardarli, sebbene puzzassero nauseanti. In quei pochi istanti gli si era già impresso il quadro”.

Ponte di Rialto, 1947. (Filippo de Pisis by Siae 2019, Collezione privata/Galleria Tega e Farsetti Arte)

De Pisis risentiva molto più di de Chirico dell’influsso degli impressionisti: l’ultimo Monet soprattutto, ma anche Renoir e Manet. Passeggiando per la mostra, organizzata secondo un criterio rigidamente cronologico, non si può non avvertire che il linguaggio pittorico di de Pisis è così unico perché strettamente intrecciato ai suoi interessi poetici e letterari: lui si è considerato esclusivamente uno scrittore fino ai trent’anni. Solo a quel punto ha capito di essere soprattutto un pittore.

Il rapporto che de Pisis ha con la realtà, con la percezione del tempo, dei profumi e delle sensazioni, ha qualcosa di proustiano. Quando vediamo i suoi Lungosenna o i suoi scorci veneziani, percepiamo lo scorrere dell’acqua e del tempo: vediamo un artista che assorbe la realtà e la riorganizza sulla tela per noi. Elstir (il pittore immaginato da Proust nella Recherche, un po’ Monet, un po’ Whistler e un po’ Boudin) insegna al narratore del romanzo a guardare la realtà in modo soggettivo: Elstir presenta le cose “nell’ordine delle nostre percezioni, anziché cominciare con lo spiegarle secondo la loro causa”, scrive Proust.

La stessa scomposizione e ricomposizione del dato sensibile sulla tela de Pisis la opera nei ritratti, che più che tentativi di rappresentare le sembianze di qualcuno diventano degli identikit psicologici. Il Ritratto di Colette, un olio su cartone del 1933 oggi in una collezione privata, non somiglia molto alla famosa scrittrice e attrice francese, ma ne rende la mobilità, l’intelligenza e la volubilità. Erano gli anni in cui Colette, morto da poco il marito Willy, oltre a scrivere aveva aperto un salone di bellezza a Parigi, sottolineando la sua capacità di continua reinvenzione e di ricerca d’indipendenza. De Pisis rende il carattere della sua modella lavorando di abrasioni e cancellature, con una gestualità che diventa particolarmente evidente osservando il dipinto di sbieco.

Natura morta marina, 1929. (Filippo de Pisis by Siae 2019, Collezione Augusto e Francesca Giovanardi)

Nei numerosi ritratti di soldati, marinai e manovali e nei vari nudi maschili in pose e situazioni più o meno mitologiche, sentiamo vibrare invece le corde di un omoerotismo vissuto di nascosto ma mai rimosso. Molti di questi bei ragazzi sono immortalati in disegni che, con tratti velocissimi di matita o di penna, fermano la bellezza di un paio di labbra carnose, di un naso storto, di una fossetta o di una mascella. Sono quasi appunti, schizzi con cui de Pisis ferma i suoi desideri. C’è qualcosa di Jean Genet in questa ipersensibilità erotica nervosa e fulminante: Genet vestiva il suo desiderio per gli uomini di parole che erano ricche e poetiche anche quando diventavano ossessive e pornografiche, de Pisis lo liberava in punta di penna, con la grazia di una scrittura automatica che sembra zampillare direttamente dal suo inconscio. De Pisis ha sofferto per la sua omosessualità, ha subìto ricatti e denunce, ha anche rischiato la vita (lo racconta Comisso) a Parigi quando uno dei suoi modelli lo colpì con una bottiglia per derubarlo.

Le ultime opere in mostra, le nature morte dipinte durante il suo ricovero presso la casa di cura per malati mentali di Villa Fiorita, a Brugherio, hanno colori molto più sobri. La Natura morta con ragnatele (1951) è quasi monocroma e al posto degli oggetti rari e colorati che l’artista disponeva gioiosamente su tavoli e davanzali negli anni venti, vediamo delle cartacce appallottolate e dei pennini, quasi a voler dire che se il poeta non è più in grado di scrivere anche la tavolozza del pittore si fa sempre più rarefatta.

La retrospettiva milanese di Filippo de Pisis si sposterà a Roma, a Palazzo Altemps, nel marzo 2020.

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