09 agosto 2018 16:14

Diretto per il sesto anno da un italiano, Carlo Chatrian, e con una sola donna tra i selezionatori – un’équipe sostanzialmente giovane – il festival del cinema di Locarno da qualche tempo opera una piccola ma sotterranea rivoluzione dando centralità alle donne nella programmazione delle due sezioni principali. Si tratti di donne che raccontano di donne (ma non sempre) o uomini che raccontano di donne, i risultati sono spesso di alto livello. Ci torneremo in chiusura di festival ma lo vogliamo sottolineare anche se solo uno dei tre film, tutti del Concorso, su cui ci attarderemo in questa seconda cronaca è diretto da una donna.

Si tratta dello straordinario documentario M dell’israeliana Yolande Zauberman, che ruota però intorno a un giovane uomo senza pace. Yara, invece, racconta di una donna (anzi di una giovane all’affacciarsi della pubertà) ed è diretto da un uomo, l’iracheno Abbas Fahdel. Il terzo titolo, Menocchio dell’italiano Alberto Fasulo, ha al centro della narrazione un uomo anziano e umile nell’Italia del 1500. Tre film di grande umanità..

Rompere il circolo vizioso
M di Yolande Zauberman, è un viaggio incredibile nell’omertà nei confronti della pedofilia nell’ambiente dei rabbini ortodossi israeliani raccontato attraverso l’occhio di una vittima oggi adulta. Il documentario di questa raffinata autrice al suo terzo lungometraggio, ex assistente del regista Amos Gitai, non ha nulla del reportage o docudrama urlato e sensazionalistico, è invece parlato, quando non sussurrato, bisbigliato.

Prima di tutto è girato interamente di notte. La notte è il momento in cui le persone si aprono, si confessano, facendo cadere le apparenze mantenute durante la vita diurna. La notte è anche il momento in cui agiscono i vampiri uscendo dall’ombra, esseri condannati a mietere altre vittime dopo esserlo stati a loro volta, come evocato nel film a un dato momento. Il protagonista di questo film noir con l’apparenza del documentario (e viceversa) vuole invece rompere questo circolo vizioso, questa gabbia. Non solo, ma vuole parlare con i suoi carnefici, o con altri che sono stati vittime e altri ancora che sono stati carnefici e, preso coscienza del danno inflitto, hanno chiuso da soli il cerchio malefico.

Malefico abbiamo detto. Il titolo, M, rimanda infatti al nome del protagonista Menahem Lang, tra l’altro attore in alcuni film di Gitai, ma anche alle ombre narrate in quel capolavoro del cinema espressionista tedesco che è M il mostro di Dusseldorf (1931), primo film sonoro di Fritz Lang e ultimo film del regista in Germania prima della fuga del regista negli Stati Uniti per scampare alla follia nazista.

Rimanda cioè a quel mostro seriale che nel film noir di Lang è sia singolo sia collettivo. Proprio come qui, dove il protagonista riesce a evocare le ombre del passato, a far uscire più o meno tutti dall’oscurità per farli parlare. Per nulla accecato dall’odio anche se vive nel dolore costante, la parte finale del dialogo con i genitori, semplicemente straordinaria, porterà Menahem a riconciliarsi con loro.

Come è straordinario che il film riesca, in questa lunga seduta notturna di psicoanalisi autogestita e plurima, a restare collettivo quanto intimo, a interrogare infine Israele sulla sessualità – tema non nuovo per Zauberman – facendolo oltretutto con questa naturalezza. M è in definitiva un viaggio di grande intensità dal dolore più cupo alla leggerezza della speranza.

Yara lascia una grande serenità e insieme interrogativi profondi. Una caratteristica dei capolavori

Yara di Abbas Fahdel è invece un’immersione totale nella luce, nella leggerezza, nella delicatezza, nella purezza. Un mondo a metà tra parabola e favola, quasi idealizzato, se non fosse filmato con stile quasi documentario, con una luce naturalistica mediante camera digitale. Inoltre è chiaramente ambientato ai tempi nostri.

Yara è una graziosa ragazzina con le treccine che si affaccia alla pubertà e vive insieme alla nonna in una vallata del nord del Libano. Quasi tutti sono morti oppure sono andati via da quella vallata, per via della povertà, della guerra. La sua casa è luogo di passaggio. Tra questi, come sbucato dal nulla in una fiaba atemporale, giunge un bel ragazzo di alcuni anni più grande di lei.

Con regolarità, in quel luogo dove restano quasi solo le vestigia di antiche comunità e modi di vivere, il ragazzo torna a farle visita e pian piano, per tocchi delicati, tra i due si crea un legame. Alla fine del film lo spettatore si sorprenderà nello scoprire insieme alla stessa Yara la profondità di quel legame. Il principe azzurro o fratello maggiore mancato dovrà abbandonare Yara perché il padre che vive in Australia intende dargli un futuro in quel paese.

Il film in un colpo solo fa percepire tutta la solitudine di quella ragazzina e in estensione della donna in quei luoghi. Yara, un po’ principessina d’altri tempi, un po’ adolescente moderna, è forse condannata a vivere in quel limbo, anche se Yara, sia chiaro, era fino ad allora felice, libera, spensierata. Grazie a una nonna molto tranquilla e paciosa vestiva all’occidentale e poco coperta, proprio come il suo nuovo amico, anche se questo non passava inosservato tra gli uomini della vallata.

Quell’incontro così bello e importante, segna però anche la fine dell’infanzia e della spensieratezza, l’inizio della consapevolezza adulta. L’autore del monumentale Homeland: Iraq year zero (2015) sembra dire che se le cose devono evolvere, il cambiamento dovrebbe avvenire con un minimo di naturalezza e umanità. Perché non tutto è da buttare via in quelle culture. Quasi etnologico, a metà tra Kiarostami e Rohmer, piacevolissimo da seguire, Yara lascia una grande serenità e insieme interrogativi profondi usando lo strumento della semplicità. Una caratteristica dei capolavori alla quale ci pare appartenere questo film.

La prima guerra ideologica
Infine Menocchio di Alberto Fasulo, la cui sonorità del titolo, che è anche il soprannome del protagonista, richiama quella della parola malocchio, espressione degli antichi riti pagani. È ambientato in Italia alla fine del cinquecento quando la chiesa cattolica, colpita nella sua egemonia dalla riforma protestante, “sferra la prima sistematica guerra ideologica di uno stato per il controllo totale delle coscienze”, come recita la nota di regia. Un momento in cui l’accusa di eresia cadeva facilmente come una ghigliottina.

Realizzato con la consulenza scientifica di vari studiosi e basato sui verbali dei processi dell’Inquisizione conservati presso l’archivio arcivescovile di Udine, Menocchio è la storia vera di un vecchio mugnaio che vive tra contadini di montagna e riesce a trascinarli con le sue riflessioni animiste sulla natura e il creato ma sempre calate nel concreto del vivere.

Fasulo arriva a maturità e con Menocchio firma un film semplice e potente

Per lui dio è dappertutto, tutti gli uomini sono davvero uguali, compresi Menocchio e il papa, e la chiesa cattolica è una struttura di potere i cui membri che vivono negli agi imprigionano con la paura gli esseri umani più umili. Questo è quanto dice Menocchio al clero che lo porta sotto processo. Dopo vari lungometraggi di finzione e documentari, Fasulo arriva a maturità e firma un film semplice e potente che appassiona e affascina dall’inizio alla fine dimostrando ulteriormente il nuovo corso nel cinema d’autore italiano.

I riti pagani si infilano in maniera quasi onirica in questo ritratto sobrio di grande saggio. Fasulo riesce a costruire inquadrature, sequenze, scorci di vera poesia. Menocchio, ieratico con totale naturalezza, è quasi uno dei re magi, un santo, forse un possibile papa buono, per riprendere la definizione che fu usata per papa Roncalli, Giovanni XXIII.

Cosciente che il cinema è un’arte dei volti soprattutto quando si parla di mistici ribelli al sistema, basti pensare alla Giovanna d’Arco di Carl Theodore Dreyer, il regista rivela un viso potente, intenso e profondamente umano che pare uscito dalla grande pittura classica. Menocchio resiste a lungo alle torture a cui viene condannato. Se alla fine cede facendo abiura per non esser bruciato vivo, continuerà a essere perseguitato per le sue idee.

È un paradosso se si pensa che quanto diceva allora Menocchio trovi oggi eco in papa Francesco, per esempio nelle interviste a Eugenio Scalfari, prima smentite ma poi di nuovo concesse, o nel libro intervista di Scalfari al pontefice. Ci pare evidente che sottotraccia il regista abbia pensato a questa similitudine nel comporre il suo pamphlet a favore della libertà di pensiero e di espressione sotto forma di poema evocativo, pamphlet valido anche per tutte le altre forme di potere private di libertà, dalle dittature alle democrazie autoritarie fino ai sistemi di pensiero rigidamente oltranzisti.

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