23 marzo 2018 17:26

Con la conquista di Afrin il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan sembra aver vinto la sua scommessa. Due mesi dopo l’inizio dell’operazione “ramo d’ulivo”, l’esercito turco e i suoi alleati controllano quasi tutto il territorio dell’enclave difesa dalle milizie curdo-siriane dell’Ypg. Le perdite turche sono state relativamente basse e la minaccia che Afrin sarebbe diventata il “Vietnam della Turchia” non si è concretizzata.

Nell’opinione pubblica turca l’operazione gode di un consenso vastissimo e la popolarità di Erdoğan ha avuto un’impennata, un po’ com’era successo al presidente russo Vladimir Putin dopo la “riconquista” della Crimea nel 2014. La campagna militare ha permesso al partito del presidente, l’Akp, di mobilitare il nazionalismo e il sentimento anticurdo e di ridisegnare il panorama politico interno a suo favore. Ha cementato la sua alleanza con la destra nazionalista dell’Mhp e ha costretto il principale partito d’opposizione, il Chp, a schierarsi in favore dell’intervento per evitare l’accusa di sostenere il terrorismo, allontanandolo dall’altra grande forza di opposizione, il partito filocurdo Hdp.

Il 16 marzo il parlamento turco ha approvato una nuova legge elettorale che favorisce le coalizioni, e grazie alla spaccatura dell’opposizione ad approfittarne saranno solo l’Akp e l’Mhp. Per capitalizzare il suo momento d’oro Erdoğan starebbe pensando di anticipare le importantissime elezioni previste per il 2019, il cui vincitore eserciterà gli enormi poteri previsti dalla riforma presidenziale adottata con il discusso referendum del 2017.

Tutto questo suggerisce che Erdoğan non abbia nessuna intenzione di fare marcia indietro. Ha già dichiarato che dopo Afrin ha intenzione di cacciare i “terroristi curdi” da tutte le aree lungo il confine turco in Siria e in Iraq, a cominciare da Manbij. Questo significherebbe entrare direttamente in conflitto con gli Stati Uniti, che in quella regione cooperano con l’Ypg e hanno centinaia di uomini sul terreno. Per il momento Washington ha ribadito il suo sostegno all’Ypg e ha smentito di volersi ritirare da Manbij. Ma il caos che regna nell’amministrazione di Donald Trump rende la sua posizione imprevedibile. Il 15 febbraio il segretario di stato Rex Tillerson era volato ad Ankara per stemperare le tensioni sull’intervento ad Afrin e aveva stabilito un “meccanismo di consultazione” con il governo turco. Ma il 13 marzo Tillerson è stato licenziato, e l’iniziativa è stata sospesa. In seguito, comunque, Ankara ha fatto sapere che un’operazione militare a Manbij “potrebbe non essere necessaria” se gli Stati Uniti convinceranno le Ypg a ritirarsi a est dell’Eufrate.

Sia che il conflitto siriano si risolva sia che continui, la Turchia sembra intenzionata a tenersi il suo pezzetto di Siria

Quello che è certo è che Ankara non ha nessuna intenzione di andarsene dalle aree che già controlla in Siria. Parallelamente all’intervento ad Afrin, la Turchia ha rafforzato la sua presenza nella regione di Idlib, la principale area rimasta sotto il controllo dei ribelli. Ha istituito dei “posti di osservazione” per stabilizzare i fronti ed evitare altre offensive dell’esercito siriano, e il 18 febbraio ha patrocinato la nascita di Jabhat tahrir Suriya (Jts, Fronte per la liberazione della Siria), creato dalla fusione di due gruppi salafiti, Ahrar al Sham e il movimento Noureddine al Zinki.

Con la conquista di Afrin ora la Turchia ha il controllo virtuale di una vasta area contigua che va dall’Eufrate all’Oronte, anche se resta da vedere come riuscirà a gestire la presenza dei jihadisti di Hayat tahrir al Sham a Idlib. Il governo turco ha già cominciato a rimpatriare alcuni dei tre milioni di profughi siriani (arabi e turcomanni) che ospita trasferendoli nella zona di Al Bab, conquistata con l’operazione “scudo dell’Eufrate” nel 2016. Se riuscirà a stabilizzare Afrin e Idlib il processo si estenderà, ridisegnando la composizione demografica della regione in modo speculare a quanto sta facendo il governo siriano nelle aree che controlla.

Questo potrebbe facilitare la spartizione della Siria in aree d’influenza chiaramente delimitate. Il 4 aprile è previsto un vertice trilaterale fra Russia, Turchia e Iran, e il processo di Astana patrocinato da Mosca potrebbe essere rilanciato. Le trattative con il governo siriano per l’evacuazione dei jihadisti di Ahrar al Sham dalla Ghouta orientale sono un segnale che Ankara potrebbe essere disposta a fare delle concessioni per stabilizzare le sue conquiste, ma le recenti schermaglie tra l’esercito turco e quello siriano a Idlib e ad Afrin dimostrano che la tensione resta altissima.

In ogni caso, sia che il conflitto siriano evolva gradualmente verso una soluzione federale di facciata, sia che la guerra continui, la Turchia sembra intenzionata a tenersi il suo pezzetto di Siria. Per avere la prova della determinazione di Ankara, basta ricordare che a Cipro Nord l’occupazione turca va avanti dal 1974. Nel lungo termine, però, gestire un territorio sempre più affollato affidandosi a dei gruppi armati jihadisti potrebbe rivelarsi molto più complicato che conquistarlo. E prima o poi il paragone con il Vietnam potrebbe tornare d’attualità.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it