Gentile bibliopatologo,
quando mi capita di leggere romanzi italiani contemporanei, non riesco a prendere sul serio la storia se i nomi sono italiani. Vedere un Andrea che dialoga con Luca o con Anna mi lascia perplesso. Perché?
– Kristian
Caro Kristian,
conosco due vie che potrebbero guidarti alla risposta che cerchi. La prima è più breve e la si può fare comodamente in funivia, ma sbuca in un luogo che forse non ti soddisferà del tutto; la seconda è tortuosa, disagevole, include una capatina tra i ghiacci artici e un’escursione nella savana africana, ma chissà che alla fine non conduca proprio dove speravi.
Se scegliessimo la scorciatoia, finiremmo dritti in uno chalet confortevole dalla cui terrazza vien facile irridere l’eterno provincialismo italiano – quel provincialismo che ci porta a doppiare tutti i film americani (perché non sappiamo l’inglese) ma a lasciare in lingua originale quasi tutti i titoli (perché suonano più cool); quel provincialismo che spinge tanti giovani scrittori a scimmiottare la lingua del doppiaggio dei film e delle fiction, e a infarcire i loro romanzi di inspiegabili “hai maledettamente ragione” e “fottiti, bastardo piedipiatti!”. Ricordi la storiella con cui Francesco Guccini introduceva, in un vecchio concerto, la canzone Statale 17?
Allora si leggevano dei libri come Sulla strada di Kerouac. Era bello leggerlo in italiano con i nomi americani: ‘Quella sera siamo partiti John, Dean e io sulla vecchia Pontiac del ’55 del padre di Dean e ci siamo fatti tutta una tirata da Omaha a Tucson’. Porco cane! E poi lo traduci in italiano e dici: ‘Quella sera siamo partiti sulla vecchia 1100 del babbo di Giuseppe e ci siamo fatti tutta una tirata da Piumazzo a Sant’Annapelago’. Non è la stessa cosa!
Già, ma perché non è la stessa cosa? Imbocchiamo la seconda via. Prepara l’attrezzatura, ché si va per climi estremi in compagnia di Ennio Flaiano:
Prendete il Polo nord: è abbastanza serio preso in sé. Un italiano al Polo nord vi aggiunge subito qualcosa di comico, che prima non ci aveva colpito. Il Polo nord non è più serio (…) La savana, la giungla, i grandi spazi dell’Africa: due italiani bastano a corromperli. ‘Dottore!’, ‘Ragioniere!’. Non rinunciano ai loro titoli, guardano i grandi spazi, vi si perdono, li percorrono senza convinzione, dubbiosamente, ‘Con lei in Africa non ci vengo più’ eccetera. Quando due italiani si incontrano per caso all’estero, la loro prima reazione è un gran ridere. ‘Che fai qui?…’. ‘E tu?’.
Flaiano ne concludeva – vertiginosa intuizione sul nostro ruolo cosmico-destinale – che l’italiano “è un tentativo della natura di smitizzare sé stessa”. Siamo incompatibili con tutto lo spettro della serietà, dal semplice contegno borghese alle altezze mozzafiato del sublime. Fa’ caso a come hai formulato la tua domanda: non hai detto che quei libri non ti piacciono, ma che non riesci a prenderli sul serio. Avresti pensato lo stesso, se fossero stati romanzi umoristici?
Quelle parole Flaiano le scrisse sul Corriere della Sera dopo aver visto un film di Ettore Scola con Sordi e Manfredi, Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?, che gli era piaciuto molto. Eppure, a furia di avventurarci, per chissà quale impuntatura, in contrade narrative per cui siamo climaticamente poco attrezzati – dal poliziesco hard boiled alla grande saga epico-politica – abbiamo disimparato a fare la cosa che ci riusciva meglio, la commedia. Non è questo, forse, il provincialismo più grave?
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