13 dicembre 2017 17:15

Gentile bibliopatologo,
non c’è un libro, nemmeno il mio preferito, di cui sappia dire come va a finire. Anna Karenina si è buttata oppure no? Boh. Humbert Humbert, alla fin fine, che ci ha combinato con quella pistola che aveva? Non ne ho la più pallida idea. Vuoto totale. Eppure mi ricordo minuziosamente atmosfere e a volte intere frasi dei libri che mi sono piaciuti! Il vantaggio di questo mio disturbo è che non c’è mai il rischio di spoiler quando parlo di libri con qualcuno. Lo svantaggio è che ho in testa un milione di storie incomplete. Dimenticavo: per il resto, ho un’ottima memoria.

–Smemorata, Collegno

Cara Smemorata,
da quando è arrivato quel guastafeste di Sigmund Freud non si può più dormire in santa pace. Si è messo a trivellare nel nostro inconscio con il suo martello pneumatico fin dalle sei del mattino, domeniche e festività incluse, e l’impresa gli è riuscita così bene che oggi non possiamo dire “trivellare” o “martello pneumatico” senza pensare al simbolismo sessuale sottinteso. Non solo non si può più dormire il sonno ristoratore del giusto, non si può neppure dimenticare in pace (e del resto le due cose son connesse: s’endormir c’est oublier, dice Paul Valéry). È per colpa di Freud e del suo cantiere fracassone se oggi sappiamo che l’oblio non è mai casuale e soprattutto non è mai innocente, che tutto ciò che abbiamo scordato lo abbiamo scordato per una ragione, e che la “segreta disposizione di chi dimentica” è rivolta a un unico scopo: la “fuga da ciò che è spiacevole” (Vermeidung von Unlust). Insomma, siamo in zona rimozione. Ma rimozione di cosa?

I finali dei romanzi possono essere belli o brutti, gratificanti o deludenti – ma se ti paiono tutti spiacevoli al punto da dimenticarli, è probabilmente perché trovi spiacevole il fatto che un libro debba finire. Il tuo sentimento di Unlust è tutt’altro che raro o stravagante, e decine di lettrici e lettori con angosce simili alla tua mi hanno scritto in questi mesi, ciascuno sottoponendomi il suo espediente nevrotico: c’è chi abbandona la lettura a metà, chi rilegge due volte ogni riga per arrivare il più tardi possibile alla fine, chi corre spedito all’ultima pagina per accertarsi che non troverà brutte sorprese, chi richiude un libro e attacca subito a leggere il successivo, chi ne legge tanti contemporaneamente per non far mai esperienza del vuoto. Il rapporto con la letteratura è una goccia dove si riflettono cose più grandi, e ciascuno degli stratagemmi che ti ho elencato lascia intravedere con un certo nitore un atteggiamento nei confronti della morte e del lutto, due cose – soprattutto la seconda – con cui abbiamo disimparato a fare i conti. Philippe Ariès, nella Storia della morte in Occidente, suggerì che al parossismo ottocentesco del cordoglio è seguita, nel novecento, un’imperiosa proibizione, e che il tabù contemporaneo del lutto ha rimpiazzato il tabù vittoriano del sesso.

Se il finale di un libro è una “piccola morte”, dimenticarlo è la tua via per risparmiarti un “piccolo lutto”. Ma va bene così, e non devi fartene un cruccio perché, come mi hai scritto, ricordi minuziosamente l’atmosfera e a volte intere frasi: altro modo per dire che temi la morte letteraria, sì, ma non al punto da non amare la vita. Hai visto L’enigma di Kaspar Hauser di Werner Herzog? Un film magnifico del 1974 – lo stesso anno in cui Ariès teneva quelle sue conferenze sulla morte. È la storia di un “ragazzo selvaggio” vissuto in una cella buia fino ai diciassette anni, che compare un giorno del 1828 su una piazza di Norimberga e vede per la prima volta il mondo. L’esperienza che ne fa è la più violenta, sfolgorante, dolorosa ed “estatica” – così ama chiamarla Herzog – che si possa immaginare. Poi Kaspar impara a parlare, e di tanto in tanto racconta anche delle storie. Ma sono storie sconclusionate come quelle che hai in testa, perché, dice lui, “conosco solo l’inizio”.

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