22 febbraio 2018 17:01

Gentile bibliopatologo,
c’è una domanda che mi porto dietro da quando ero bambina. I libri che comincio a leggere li leggo fino alla fine (come mio personale imperativo morale). Ma sia che legga ad alta voce sia che m’immerga in un silenzio assoluto… io sbadiglio. Succede da sempre, da quando leggevo le favole alla nonna. Dopo 4-5 pagine sbadiglio. La frequenza è legata all’interesse e all’autore ma c’è almeno uno sbadiglio per tutti… Perché? Spero lei riesca a svelare l’arcano.
–Rassegnata

Cara Rassegnata,
quando la psicoanalisi, passando per Trieste, posò i suoi bagagli in Italia e cercò di acclimatarsi nei grandi centri della nostra cultura, il meno che si possa dire è che non trovò subito un’accoglienza calorosa. I filosofi idealisti, per esempio, scrutavano quella dottrina esotica dall’aspetto un po’ losco con un misto di sospetto, incomprensione e aperta ripulsa. Un critico letterario, il crociano Francesco Flora, pubblicò nel 1934 uno spietato Congedo a Freud, dove tra le mille invettive moraleggianti ironizzava anche sul “pansessualismo” della psicoanalisi:

Se domani qualcuno volesse costruire una teoria psicologica per mostrare che il vero scopo della vita umana è quello di sboccare in una serie di sbadigli, e che la repressione degli sbadigli è la vera origine dei mali (tra le norme di buona educazione c’è quella di evitare gli sbadigli in pubblico, e gli sbadigli si vendicano di noi con le forme di nevrosi!); e che l’atto sessuale è un’allegoria dello sbadiglio, e il sogno uno sbadiglio represso, tutti gli argomenti andrebbero bene, sol che si ordinassero su una trama d’aspetto scientifico.

È un peccato che Flora non abbia dipanato più a lungo questo bozzolo di teoria, che l’abbia gettata lì nell’a parte di un esempio sarcastico, perché ho la sensazione che avrebbe potuto estrarne fili preziosi. Ma pur convenendo che lo scopo della vita non è sbadigliare, non ho dubbi sul fatto che la repressione degli sbadigli sia all’origine di molti mali. Anche del tuo, cara Rassegnata. Ti sei sottomessa a un Super-Io sadico e irragionevole (il tuo “personale imperativo morale” di leggere tutti i libri fino alla fine, che crudeltà!) e il tuo inconscio di lettrice si vendica a suon di sbadigli.

La questione, tuttavia, ha anche un aspetto più generale. Ho ripescato per te una pagina del 1962 dalla rivista Tempo Presente, gli Appunti sul costume letterario di Giovanni Russo, resoconto di un simposio tra amici e colleghi. L’argomento della discussione è qui la Noia, se abbia o meno “il diritto di assidersi al fianco della Musa”, e soprattutto lo strano pudore di critici e recensori nel farne un metro per giudicare il valore di un libro. Dice uno dei convitati:

Mi domando: i critici non sentono il morso della noia? Che cos’è la noia se non il rinsecchirsi, il rinchiudersi, lo sfiorire nell’animo del lettore della disponibilità a sentire l’“opera d’arte”, a comunicare con i personaggi, a godere della loro vita artistica? La mancanza di severe reprimende alla noia da parte degli autorevoli critici è quanto mai dannosa. Perché da tali tribune non si esortano i nostri tormentati scrittori joyciani o robbe-grillettiani a essere anche meno noiosi e meno presuntuosi nell’annoiare?

Questa reticenza a manifestare la noia tradisce un’idea della lettura come pratica tetra e puritana; prendendo sul serio lo scherzo di Flora potremmo dire che è una “repressione degli sbadigli” nel tempio della cultura. Solo da un’idea del genere poteva nascere la formula inglese guilty pleasure, il piacere che si prova nel leggere un romanzo appassionante ma disprezzato (almeno pubblicamente) da tutti, che possiamo portarci a letto in segreto ma che non oseremmo presentare in società: in breve, il best seller come prostituta delle lettere.

È un’idea che va scomparendo, soppiantata dal suo contrario, non meno mortificante: l’impazienza capricciosa davanti a qualunque libro che non riesca a divertirci fin dalla prima pagina. Ma della “repressione degli sbadigli” sopravvive ancora qualche sintomo tra le righe delle recensioni. Facci caso, quando un critico vuole far trapelare che si è annoiato a morte, ma ha paura di confessarlo prima di tutto a sé stesso, userà il più vuoto, fiacco e cerebrale degli aggettivi: interessante. Immagino come debba sentirsi un giovane scrittore quando viene elogiato per il suo “esordio interessante”: più o meno come la ragazza bruttina che si sente etichettare come “un tipo”. Non dovrà stupirsi, poi, se troverà il suo critico a letto con un best seller.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it.

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