03 maggio 2018 16:22

Esimio prof. dott. luminare in bibliopatologia,
se prima riuscivo a seguire una dieta letteraria bilanciata di classici e contemporanei, da qualche tempo sono succubo di quello che si potrebbe definire “canone di Carneade”. Sono intrigato solo da scrittori pressoché sconosciuti e di cui si sono perse le tracce dopo le prime pubblicazioni. Non intendo quei grafomani velleitari che si sono sobbarcati le spese del tipografo, ma autori che pur avendo esordito presso editori prestigiosi per qualche motivo sono scivolati – magari volontariamente, chi lo sa – in un cono d’ombra densa e i loro testi risultano fuori catalogo da anni. Figure di cui è arduo reperire informazioni, molti non hanno neppure una paginuzza embrionale su Wikipedia e la loro bibliografia completa si trova solo sul catalogo del Servizio bibliotecario nazionale. Tutto è cominciato per caso, come d’uso vanno queste cose: sbirciando gli elenchi delle collane in fondo ai libri, la curiosità per i titoli a me più oscuri mi ha indotto, dapprima, a chiederli in prestito in biblioteca e poi a setacciare eBay alla loro spasmodica ricerca. Ora è un vizio cronico. A cosa è dovuta questa mia ossessione per gli obliati dalla repubblica delle lettere?
–Olmo D.

Caro Olmo,

Molte sono le ragioni che possono spingerci a visitare il Cimitero dei libri dimenticati, “un tempio tenebroso, un labirinto di ballatoi con scaffali altissimi zeppi di libri” immaginato da uno scrittore che proprio non appartiene al tuo “canone di Carneade”, lo spagnolo Carlos Ruiz Zafón. Proverò a ripercorrerle, dalle più superficiali alle più profonde, come scendendo i gradini di una vertiginosa scala a chiocciola.

C’è il lettore che si avventura tra i libri scomparsi per banale snobismo, ossia per un’ansia di distinzione che tradisce una tortuosa sudditanza agli idoli della moda e dell’opinione. Lo riconosci a vista, nell’ideale cocktail party delle lettere (parlare di repubblica sarebbe ormai una presa in giro): è quello che si apparta vistosamente in un angolo della terrazza e, tra il brusio delle chiacchiere sull’ultima dozzina o cinquina dello Strega, raduna una piccola corte affascinata tirando fuori i nomi esotici dei poeti estinti di cui ha fatto bottino nelle sue peregrinazioni bibliografiche. È il perfetto collega letterario di certi vecchi mercanti d’avorio coloniali. Ma perché si addentra in un bosco di libri rari o perduti se ha la coda dell’occhio sempre volta alle luci della città, se tutto quel che gli interessa è raccogliere bestiole dall’aspetto insolito da dare in pasto, al suo ritorno, al Grande animale sociale? Lasciamolo lì con il suo bicchiere in mano, e scendiamo.

Appena sotto di lui, c’è quello che setaccia i vecchi cataloghi spinto da una curiosità che un profano chiamerebbe voyeuristica o morbosa. Lui pure è un personaggio letterario; ma se il lettore del primo gradino sarebbe stato a suo agio in una comedy of manners o in un romanzo ottocentesco sull’ambizione mondana, quello del secondo è piuttosto l’eroe avventuroso di un thriller esoterico. Per una comunissima intossicazione della sensibilità – i primi sintomi sembrano romantici, ma il quadro clinico degenera presto in paranoia – si è convinto che i veri tesori siano sempre protetti dalla cortina del segreto o dell’oblio, che l’unica bellezza meritevole di essere ammirata sia quella che si nasconde sotto sette veli, che i soli vangeli buoni siano quelli apocrifi, i soli romanzi preziosi quelli ritirati dal commercio, i soli veri artisti quelli morti in disgrazia. È una quête avvincente, ma se pure il nostro Indiana Jones dovesse imbattersi in qualche santo Graal, lo troverà in mezzo a un mucchio di comuni ciotole senza valore, patacche in finto oro e stoviglie prodotte in serie. Purtroppo, la sua intossicazione gli renderà difficile distinguere l’uno dalle altre.

Scendiamo ancora di un gradino, e incontriamo il lettore genuinamente inattuale. È un personaggio adorabile, come il cugino Pons di Honoré de Balzac e altri collezionisti sentimentali. Per indole, per carattere, per tradizione familiare, o anche solo perché è cresciuto in una casa piena di libri strani, si trova ad aver poco da spartire con i suoi contemporanei. Ma questo distacco dalle passioni del suo tempo non lo vive come un segno d’elezione da ostentare, piuttosto come un mero fatto da constatare; al limite, come una condanna alla solitudine. Frugando per bancarelle di libri scartati, tra i nomi degli autori di un tempo lontano da cui si sente esiliato per uno sfortunato accidente di anagrafe, cerca semplicemente di mettere insieme un’immaginaria compagnia di amici. I volumi allineati sui suoi scaffali sono come gli invitati di una festa malinconica che non si terrà mai – l’unica a cui avrebbe voluto partecipare.

E così arriviamo all’ultimo gradino della nostra scala a chiocciola, dove nel buio fitto ci attende un lettore di specie rarissima. È una misteriosa figura di guardiano o di vestale, il sacerdote dell’oltretomba letterario. Il suo archetipo lo ha fissato una volta per tutte Henry James nell’Altare dei morti, dove il gentiluomo George Stransom celebra il culto dei suoi amici e amori perduti allestendo in una chiesa un piccolo santuario tutto sfolgorante di candele, una per ogni morto: “A provvedere ai vivi c’erano pur sempre anche i più egoisti tra gli uomini; ma nessuno, nemmeno chi era ritenuto più generoso, faceva nulla per quegli altri. E così, col passare degli anni, andò maturando in George Stransom una risoluzione: lui sì, almeno, avrebbe fatto qualcosa, l’avrebbe fatto cioè per i suoi morti”.

Se le grandi biblioteche sono i cimiteri monumentali delle lettere, nelle case di qualche lettore devoto capita ancora di trovare santuari come quello di James, cappelle gentilizie dove si fa compagnia ai libri scomparsi e li si trattiene per un poco dall’oblio che finirà per risucchiarli. Certo, non sono atti di pietà che si possano smerciare facilmente in società; il lettore sacerdote si accontenta, come Stransom, “della placida sensazione di aver salvato le sue anime: non un’oscura salvazione teologica, non la benedizione di un mondo contingente – erano salve al di là della fede o delle opere, salve per il tiepido mondo che avevano lasciato con riluttanza, per il presente, per la continuità, per la certezza dell’umana memoria”. Non lo incontreremo mai al cocktail party delle lettere.

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