22 novembre 2018 15:41

Gentile bibliopatologo,
guardandomi un po’ intorno negli ambienti dei giovani poeti in erba, mi sembra che siano tutti interessati a scrivere le proprie banalità senza avere mai letto poesia. Tuttavia, mi viene da pensare, come biasimarli? Di molti autori esistono per lo più costose opere complete, inaccessibili per uno studente (senza contare che ci vuole coraggio a interessarsi a un autore partendo da questi volumoni che non tralasciano nemmeno le liste della spesa). Per non parlare di certi poeti contemporanei stucchevoli che sembrano scrivere per un pubblico di tredicenni. Aiuto!

–Lorenzo

Caro Lorenzo,
i giovani poeti in erba – non di rado in erbaccia – leggono libri di poesia? Provo a cavarmela come il reverendo Lovejoy in un vecchio episodio dei Simpson: “Risposta breve: sì, con un se; risposta lunga; no, con un ma”. Entrambe le risposte, la breve e la lunga, le troverai in un piccolo libro dalle straordinarie proprietà officinali, già che si parla di erbe: I poeti sono impossibili di Alessandro Carrera.

Risposta breve: sì, con un se. A differenza della musica o delle arti figurative, scrive Carrera, la poesia non ha un pubblico che si possa chiamar tale:

La comunità dei produttori, dei promotori e degli interpretanti si sovrappone totalmente, senza lasciare residui. I fruitori non contano perché, semplicemente, non ci sono. Chi legge poesia in genere la scrive, la traduce, la insegna, o trova qualche singolare piacere nel promuoverla. Non c’è nemmeno necessità di istruire nessuno, perché nessuno compra il biglietto. Il pubblico della poesia non può sentirsi imbrogliato per essere stato convinto a contemplare del catrame di parole scagliato su una pagina. Non è un pubblico, è già parte in causa, e quindi già vaccinato rispetto a ogni possibile scoperta della nudità del re.

Carrera, va da sé, scrive, traduce e insegna poesia. E sai quand’è che mi sono imbattuto per la prima volta nel suo nome? Quando, da adolescente, scrivevo versi anch’io, ed ero abbonato al mensile Poesia (che esiste ancora, lo scopro adesso). Insomma, ero parte di questa microscopica comunità immaginaria, che non ha nessuna speranza di ripagarsi le spese. Non me la sento di dar la colpa ai pochi libri di poesia che si trovano in commercio: un “borsellino pieno di ragnatele” possiamo aspettarcelo da Catullo, non dal suo editore, che ha la legittima preoccupazione di non andare in rovina.

Juli Balla, Getty Images

Ma almeno i poeti, loro, quei pochi libri (che così pochi non sono, se includiamo nella mappa il vasto continente semisommerso dei volumi autopubblicati) li leggono? E qui veniamo alla risposta lunga: no, con un ma. Carrera racconta di aver incontrato un esemplare di una categoria particolare, “i poeti che non leggono, perché così, dicono loro, non restano influenzati”:

Era un robusto signore sulla sessantina, faccia rubizza e pelle spessa, cappotto e cappello a proteggerlo dall’inverno milanese, che entrò intirizzito dal freddo nell’ufficio di una piccola casa editrice. Aveva in mano un grosso pacco gocciolante che depose sul tavolo della direttrice editoriale. Una volta aperto, il pacco rivelò non uno ma sei volumi dattiloscritti di poesie, che il signore intendeva sottoporre alla casa editrice (no, sottoporre non è la parola esatta; intendeva pubblicarli, tutti e subito). Davanti a quella montagna di carta, circa ottocento-novecento cartelle, la direttrice ebbe la prontezza di spirito di chiedergli: “Per ogni libro di poesie che scrive, quanti ne legge?”. Il signore dalla faccia rubizza guardò perplesso la sua interlocutrice, che gli ripeté la domanda. ‘Io non leggo niente’ rispose infine, con il tono di chi si fa gli affari suoi ed è ben convinto che il resto del mondo starebbe molto meglio se facesse altrettanto. ‘Non mi faccio influenzare’.

Suona come la risposta di un megalomane – e lo è. Ma c’è dell’altro. Scrivere un romanzo è ben più faticoso che leggerlo; viceversa, nota Carrera, “leggere poesia è più faticoso che scriverla”. Familiarizzare con la voce di un poeta richiede un lungo apprendistato, una disciplina sfiancante, e le prime gratificazioni arrivano solo dopo grandi sforzi. “E a ogni nuovo poeta dobbiamo ricominciare daccapo. È come imparare un nuovo programma per ogni file che apriamo”. Se scrivere è tanto più facile, “è perché chi scrive conosce, o crede di conoscere, il programma che usa”.

Il megalomane dell’aneddoto padroneggiava il suo software con tale dimestichezza da riempirci sei volumi, che probabilmente erano solo la scrematura dei sessantasei che conservava sotto chiave in un armadio (il proverbiale cassetto non sarebbe bastato). Questo cosa vuol dire, che i poeti non devono leggersi l’un l’altro? Al contrario! Penso tuttavia che il buon poeta non sia quello che installa cento software diversi nel proprio sistema operativo, ma quello che, una volta installato e perfezionato il proprio, riesce ad aprirci qualunque file – romanzi, saggi, circolari ministeriali, insegne stradali – e a farne poesia.

Il problema di molti poeti non è che non leggono abbastanza poesia. È che non leggono abbastanza.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it