29 marzo 2018 23:31

Di solito i film sullo sport raccontano parabole edificanti, storie positive ed emozionanti su grandi successi, grandi rivalità, medaglie, grandi atleti che compiono imprese che vanno oltre le loro discipline. Tonya di Craig Gillespie non è quel genere di film, anche se la storia di Tonya Harding, campionessa statunitense di pattinaggio su ghiaccio, la prima atleta a compiere un triplo axel durante una competizione nazionale, va sicuramente oltre la disciplina che praticava.

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Gillespie non ci racconta un’esaltante vicenda sportiva, ma una storia molto americana, fatta di classismo, consumismo, ipocrisia, illusioni, ossessioni e soprattutto abusi e violenze, pane quotidiano di una ragazza di Portland, Oregon, che per un po’ è stata la seconda persona più famosa al mondo dopo Bill Clinton. In alcuni momenti il film sembra scritto dai fratelli Coen, maestri nel rendere credibili delle storie assurde. Invece quello che succede in Tonya è la verità, almeno quella raccontata dai suoi protagonisti. È come un mockumentary al contrario. Cioè un finto documentario in cui degli attori drammatizzano cose realmente accadute. Molte scene si possono vedere su YouTube, nella loro “versione originale”. E funziona, grazie a una scrittura attenta, un gran ritmo e un cast perfetto. Anche se l’Oscar l’ha vinto (con pieno merito) Allison Janney che interpreta LaVona, la madre di Tonya, il mio premio va a Margot Robbie.

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Nel 2049 il mondo è un postaccio, inquinato e sovrappopolato. Columbus, Ohio, dove vive Wade (Tye Sheridan), non fa eccezione. Per fortuna c’è Oasis, un universo virtuale dove lavorare, giocare, svagarsi, insomma vivere una vita migliore. Il creatore di Oasis, James Halliday (Mark Rylance), lascia la sua eredità sepolta dentro la realtà virtuale, come un easter egg. Chi trova l’uovo di pasqua diventerà ricco e potrà controllare Oasis. Multinazionali e avventurieri partono alla carica con i loro avatar. Tra loro anche Wade che, con il suo alter ego virtuale, Parzival, se la sa cavare alla grande dentro Oasis.

Non sono un fan sfegatato delle distopie e neanche degli eccessi di computer grafica ma Ready player one di Steven Spielberg ha troppi punti a suo favore. Non solo per il suo autore, ma anche perché Halliday, il creatore di Oasis, è ossessionato dagli anni ottanta e quindi il suo mondo virtuale ribolle di riferimenti a un immaginario che Spielberg ha contribuito a creare, che poi è quello con cui sono cresciuto. È bastato il marchio sonoro di Ritorno al futuro, in coda al trailer, per farmi venire voglia di vederlo.

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Dopo l’interessante Orecchie, Alessandro Aronadio firma Io c’è, solida commedia che tiene insieme temi molto attuali: la crisi, la religione e il boom dei bed and breakfast. Sono tantissime le persone che hanno individuato nel bnb la soluzione a tutti i loro problemi economici. Ne sono una prova le case vacanza che sorgono come funghi, per esempio a Roma, anche in zone dove l’attrazione turistica principale è una fermata della metropolitana.

Per Massimo (Edoardo Leo) riuscire a far fruttare la vecchia casa paterna è l’ultima possibilità prima di dichiarare fallimento (umano e morale, oltre che economico). Ma la crisi si fa sentire. Cosa rimane? La fede! Ma non nel senso della preghiera e della speranza, più in quello dell’esenzione dalle tasse di cui beneficiano i luoghi di culto. La svolta è trasformare il bnb in un luogo di culto. E si può fare! Lo conferma il regista che nella fase di scrittura del film ha compiuto molte ricerche per scoprirlo. Nel cast anche Margherita Buy e Giuseppe Battiston.

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Di un altro argomento caro all’uomo della strada si occupa anche Antonio Albanese, regista e interprete di Contromano. Anche in questo caso c’è un uomo in difficoltà rispetto al mondo che lo circonda. Mario ha un negozio di maglieria a Milano ed è un abitudinario cronico. Per lui la crisi prende la forma di un senegalese che vende calzini davanti al suo negozio. Mario ha un’idea per battere la concorrenza (ritenuta sleale): riportare in Africa l’ambulante. In auto: Milano-Senegal, via Tunisi. Ma il lungo viaggio, oltre che un inedito fuoriprogramma, fornirà a Mario l’occasione per scoprire profondi valori.

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Disneyano fino in fondo Nelle pieghe del tempo di Ava DuVernay. Christopher Orr dell’Atlantic ha voluto assecondare il messaggio della regista all’inizio del film: vederlo con gli occhi del bambino che è in voi. E in questo modo il ricco film di DuVernay funziona. Con delle bambine piccole vedo tutti i giorni qualsiasi cosa con gli occhi del bambino che è in me (o comunque nella stanza con me). Ma le mie figlie sono troppo piccole per vedere Nelle pieghe del tempo, e io non ho fretta. Arriverà il suo momento.

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