13 settembre 2018 16:42

Suad Amiry sarà al festival di Internazionale a Ferrara il 5 ottobre con l’autrice Selma Dabbagh, gli scrittori Elias Sanbar e Atef Abu Seyf e la fotografa Rula Halawani.

Il prossimo 5 ottobre due scrittrici, due scrittori e un’artista palestinesi parteciperanno a un incontro a Ferrara sulla scrittura palestinese, a cui nel 2017 Internazionale ha dedicato un numero speciale da me curato. Il pubblico italiano sarà curioso (spero) di saperne di più: la specificità della scrittura palestinese, la letteratura della diaspora, la lingua araba, le altre lingue usate per scrivere. Dal canto loro i cinque palestinesi arriveranno da diverse parti del mondo e “festeggeranno” il loro incontro.

Gli organizzatori del festival di Internazionale, infatti, avrebbero bisogno di mille mille pagine per descrivere calvario logistico superato per farli partecipare all’incontro. In parte perché non conosco nessun palestinese che risponda alle email al primo, al secondo o perfino al terzo tentativo (è nel nostro dna). Ma il vero motivo è che siamo ormai tutti dispersi in tanti paesi. Osservarci da vicino, farsi raccontare i luoghi dove viviamo e la lingua che usiamo per scrivere permette di capire meglio lo stato della Palestina o, per essere più precisi, l’assenza di uno stato palestinese.

Noi cinque ospiti apparteniamo a due categorie principali: “della diaspora” e “non della diaspora”. I due della diaspora, ovvero Selma Dabbagh ed Elias Sanbar, vivono rispettivamente a Londra e a Parigi, mentre quelli non della diaspora, ovvero Atef Abu Seyf, Rula Halawani e io, viviamo in differenti parti dei territori occupati: Gaza, Gerusalemme e Cisgiordania. La distanza tra Ramallah, dove vivo io, e Gerusalemme, dove vive Rula, è di appena 14 chilometri.

Eppure, io e Atef (come i cinque milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e a Gaza) non possiamo andare a Gerusalemme, neppure nella parte araba. Il mostruoso posto di blocco di Qalandiya, che separa Gerusalemme da Ramallah e me da Rula, è il soggetto del progetto artistico della fotografa, e che sarà in mostra a Ferrara. E naturalmente né Rula né io possiamo raggiungere Gaza, dove vive Atef Abu Seyf, a causa del blocco imposto alla Striscia dal 2007.

Per volare in Italia, non potremo usare lo stesso aeroporto. A parte Rula, che ha un documento d’identità rilasciato a Gerusalemme, dal 2000 né io né Atef, ancora una volta come altri cinque milioni di palestinesi, abbiamo il diritto di usare l’aeroporto di Tel Aviv. Atef dovrà uscire da Gaza attraverso il valico di Rafah e prendere l’aereo al Cairo, mentre io dovrò viaggiare da Ramallah ad Amman e partire dall’aeroporto della capitale giordana.

Se poi uno qualsiasi di noi volesse incontrare i suoi colleghi della diaspora a Londra e a Parigi, dovrebbe richiedere un visto britannico o uno francese. E sappiamo tutti cosa significhi ottenere un simile visto per chi ha un passaporto palestinese. Per non parlare del genere di domande rivolte negli aeroporti internazionali alle persone di Gaza come Atef o a quelle come me, i cui passaporti rivelano una nascita a Damasco o un padre di nome Mohammad. Come se essere palestinese non fosse già abbastanza grave.

Adesso che spero di essere riuscita a spiegare perché l’incontro di cinque palestinesi non sarà solo un’occasione speciale per il pubblico del festival ma anche un lieto evento per gli invitati, vorrei procedere oltre.

Stato esclusivamente ebraico
Nel 1926 la carta costitutiva del Mandato britannico in Palestina stabilì che questo avrebbe avuto tre lingue ufficiali: inglese, arabo ed ebraico. All’epoca i palestinesi arabofoni erano l’85 per cento della popolazione, gli ebrei circa l’11 per cento e i britannici un numero insignificante. L’inglese era però la lingua dei coloni (il ministro degli esteri britannico, Balfour, aveva promesso ai sionisti un focolare nazionale ebraico).

La nuova legge stabilisce che l’ebraico è la lingua ufficiale, mentre l’arabo è stato declassato da lingua ufficiale a lingua con uno statuto speciale

La carta britannica stabiliva anche che il nome del paese sarebbe stato Palestina e la moneta sarebbe stata la sterlina palestinese. Da allora però sono successe molte cose. Il paese ha perso il suo nome di Palestina nel 1948 e il mandato palestinese si è diviso in Israele, Cisgiordania, Gerusalemme e Striscia di Gaza. La moneta è diventata lo shekel israeliano.

Il 19 luglio 2018 il parlamento israeliano ha approvato la legge sullo stato-nazione, che attribuisce agli ebrei il diritto esclusivo all’autodeterminazione. Con questa legge, Israele si è definito come uno stato esclusivamente ebraico, affermando che il blu è il colore della sua bandiera e che l’Hatikvah è il suo inno nazionale. La legge tuttavia non definisce quali siano i confini dello stato d’Israele o, se per questo, di un “Eretz Israel” (terra d’Israele) che potrebbe estendersi oltre il fiume Giordano o magari fino all’Arabia Saudita. La nuova legge stabilisce che l’ebraico è la lingua ufficiale, mentre l’arabo è stato declassato da lingua ufficiale a lingua con uno statuto speciale.

Come sanno i palestinesi e il resto del mondo, tutte le persone sono uguali, ma alcune sono più uguali di altre, e quindi sono al di sopra del diritto internazionale. Il 19 luglio, votando a favore della legge sullo stato-nazione, Israele ha ufficialmente dichiarato di essere uno stato di apartheid non solo in pratica, come è sempre accaduto, ma anche per legge.

Suad Amiry ha scritto questo articolo per Internazionale. Traduzione di Federico Ferrone. L’autrice sarà al festival di Internazionale a Ferrara il 5 ottobre insieme a Selma Dabbagh, Elias Sanbar, Atef Abu Seyf e la fotografa Rula Halawani.

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