I testimoni dicono che l’attacco commesso il 28 settembre, durante la festività ebraica di Simchat Torah, da cittadini ebrei israeliani contro gli abitanti del villaggio palestinese di Khirbat al Mufkara è stato terrificante. Basel Adraa, un attivista del vicino villaggio di Al Tuwani, ha scritto che decine di uomini a volto coperto “sono andati casa per casa con coltelli e martelli, distruggendo finestre e automobili. Hanno lanciato una grande pietra che ha colpito alla testa un bambino di tre anni, mandandolo in ospedale. I soldati li hanno aiutati con i gas lacrimogeni. Gli abitanti sono scappati. Non riesco a dimenticare le persone in fuga, terrorizzate, i bambini che urlavano, le donne in lacrime, mentre i coloni entravano nei loro salotti, come se fossero posseduti dalla violenza e dalla rabbia”.

Al Mufkara è uno dei villaggi di grotte alla periferia della città di Yatta, nella parte meridionale delle colline di Hebron, dove da decenni Israele tenta di sradicare gli abitanti e demolire i villaggi. I residenti hanno dimostrato grandissima resistenza e perseveranza, e sono rimasti. Si rifiutano di lasciare le loro case nonostante le difficili condizioni di vita e i divieti imposti dagli israeliani. Gli è proibito allacciarsi alla rete idrica e a quella elettrica, e non possono costruire niente, neanche ambulatori, scuole o aree giochi. Gli è proibito inoltre asfaltare o riparare le strade che collegano le case. In molti, per lo più giovani, se ne vanno a causa di questi divieti e del modo in cui limitano la loro crescita.

Tempo e scartoffie

La procedura governativa per cacciare una popolazione rurale richiede tempo e scartoffie. Ci sono le petizioni all’alta corte di giustizia, gli appelli, i pareri legali, un po’ di supervisione internazionale e condanne europee piuttosto deboli. Ma una minaccia diretta agli abitanti, come questo attacco, è uno strumento di espulsione immediata. Questo e altre centinaia di attacchi di ebrei israeliani interessati al patrimonio immobiliare della Cisgiordania hanno lo scopo di rendere ancora più intollerabile la vita ai palestinesi. A Masafer Yatta, come in tutta la Cisgiordania, la violenza apparentemente privata dei coloni è funzionale alla politica ufficiale.

Israele nega che i villaggi di grotte di Masafer Yatta (com’è chiamata l’intera area) esistessero anche prima della fondazione dello stato, e sicuramente prima della conquista della Cisgiordania nel 1967. Lo stato ebraico è interessato a cancellare la storia di come questi paesini, un tempo composti da grotte, si sono sviluppati creando strutture in superficie, e vuole sopprimere lo stile di vita degli abitanti del luogo. L’allevamento di ovini e l’agricoltura per il fabbisogno familiare sono una parte inscindibile della storia e della geografia palestinesi nella regione. I villaggi e le loro diramazioni danno vita a un tessuto sociale organico, dove da lungo tempo esistono interazioni familiari, economiche, sociali e culturali che legano i piccoli centri tra loro e con la città di Yatta.

La giustificazione legale dietro la richiesta israeliana di espellere gli abitanti è che si trovano nel campo di tiro 918, destinato alle esercitazioni militari. Nel 1999 l’esercito aveva già cacciato gli abitanti di una decina di villaggi nella regione, accusandoli di sconfinare in una zona di tiro. I soldati confiscarono le tende, demolirono le strutture, requisirono i loro averi, spinsero le persone sui camion e le scaricarono a Yatta. All’epoca Ehud Barak era premier e ministro della difesa israeliano.

In risposta alla petizione urgente presentata all’epoca dall’Associazione dei diritti civili in Israele e dall’avvocato Shlomo Lecker, l’alta corte consentì con un provvedimento provvisorio il ritorno degli abitanti, ma non gli concesse di ricostruire strutture né di collegarsi alle infrastrutture o di costruire per favorire la crescita e rispondere ai bisogni del ventunesimo secolo. Di conseguenza da anni le comunità palestinesi subiscono continue demolizioni, eseguite dall’amministrazione civile contro le umili strutture che erigono. Le petizioni del 2013 sono ancora in attesa di un verdetto della magistratura. Di recente i giudici hanno accettato la richiesta del consiglio di Masafer Yatta, rappresentato dall’avvocata Netta Amar-Shiff, di partecipare alle procedure legali collaborando con la corte. Un’udienza decisiva della causa contro l’espulsione degli abitanti e la demolizione dei loro villaggi dovrebbe tenersi a novembre.

Circa un anno fa l’istituto Akevot ha trovato un documento che dimostra che la decisione del governo di designare l’area a campo di tiro aveva lo scopo di bloccare il naturale sviluppo dei palestinesi nella regione. In un incontro della commissione congiunta per gli insediamenti tra il governo e l’Organizzazione sionista mondiale, organizzato il 12 luglio 1981, l’allora ministro dell’agricoltura Ariel Sharon dichiarò: “Vogliamo proporvi ulteriori aree di addestramento sul confine, tra le pendici delle colline di Hebron e il deserto della Giudea”. Sharon spiegò che il governo aveva manifestato interesse per una presenza militare in queste aree a causa “dell’espansione degli arabi che vivono nelle colline sulla catena montuosa verso il deserto”. In seguito a quell’incontro un’area di circa 3.340 ettari – quella di Masafer Yatta – fu dichiarata zona militare.

Ci sono altri documenti che testimoniano la storia dei villaggi di grotte e che Amar-Shiff ha presentato ai giudici dell’alta corte. Il geografo e geologo ebreo Natan Shalem, nato a Salonicco, visitò la regione nel 1931 e nel suo libro Il deserto della Giudea descrisse le diramazioni (khirab) che ha Yatta in quest’area e la funzionalità delle abitazioni nelle grotte. Anche le fotografie aeree del 1945, un’indagine britannica del 1879 e una mappa del 1933, citate in varie consulenze presentate al tribunale, testimoniano l’esistenza di queste comunità tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento.

Da sapere
La complicità dell’esercito

◆ Secondo le autorità israeliane, il numero di attacchi violenti dei coloni ebrei contro i palestinesi in Cisgiordania è aumentato negli ultimi due anni a causa dell’atteggiamento “permissivo” dell’esercito nella zona. Nella prima metà del 2021 ne sono stati denunciati 416, più del doppio rispetto allo stesso periodo del 2020. Anche le aggressioni fisiche sono più che raddoppiate: da 52 tra gennaio e giugno del 2020 a 130 nella prima metà del 2021. Haaretz


Alla luce del giorno

Mahmoud Hamamda è nato nel 1965 in una grotta di Al Mufkara, e ci vive ancora. A febbraio ha raccontato ad Haaretz: “Era la grotta di mio padre e di suo padre prima di lui. Qui c’erano 22 antiche grotte. Mio fratello e io studiavamo alla scuola di Yatta perché nostra nonna abitava lì vicino. Partivamo a piedi la mattina e tornavamo la sera. Quando pioveva dormivamo a casa sua”. Durante l’espulsione del 1999 aveva 34 anni. Nell’attacco del 28 settembre lui e uno dei suoi nipoti sono rimasti feriti. Yuval Abraham, giornalista della rivista online Siha Mekomit, ha scritto subito dopo: “Una pietra ha colpito la testa di un bambino di tre anni, Mohammed, che è stato portato in ospedale. Ha una frattura al cranio, un’emorragia interna e domani sarà operato. Sul pavimento di casa sua resta una macchia di sangue. Era lì quando gli uomini a volto coperto hanno lanciato le pietre. Suo nonno è in preda all’angoscia, anche lui ferito”.

Alcuni israeliani si chiedono perché l’esercito, la polizia e l’amministrazione civile (un altro organismo governativo che opera in Cisgiordania) non blocchino i coloni violenti, impedendo gli attacchi contro gli abitanti palestinesi dei villaggi, che avvengono anche alla luce del giorno e davanti alle telecamere. Una risposta è che queste istituzioni attuano la politica del governo israeliano di espulsione dei palestinesi da quella che è chiamata area C e di ampliamento degli insediamenti.

I soldati che il 28 settembre hanno sparato sugli abitanti palestinesi e quelli che due settimane prima hanno attaccato gli attivisti dell’ong Combatants for peace solo perché volevano portare l’acqua a una famiglia di Al Mufkara hanno interiorizzato il messaggio ufficiale del governo. E cioè che la terra non appartiene a nessuno e che gli abitanti palestinesi devono essere sradicati, un’azione possibile e vantaggiosa. Anche se si tratta di una palese violazione del diritto internazionale. ◆ fdl

Amira Hass è una giornalista israeliana che vive a Ramallah, in Cisgiordania. Scrive sul quotidiano Haaretz.

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Questo articolo è uscito sul numero 1430 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati