Il giorno in cui si è chiuso il primo processo penale al mondo sui crimini di guerra in Siria è cominciato molto prima dell’alba. Una piccola folla si è radunata davanti ai cancelli del tribunale nella città di Coblenza, nel sudovest della Germania, già intorno alle tre del mattino, ansiosa di assicurarsi un posto all’interno.

Quando Merlina Herbach e Hassan Kansour sono arrivati, fuori era ancora buio. “Siamo stati presenti a ogni udienza negli ultimi due anni”, ha spiegato Herbach. I due sono osservatori del processo per conto dell’ong Syria justice and accountability centre. “Non volevamo perderci il posto a sedere”.

“La sentenza ha ristabilito la mia fede nella giustizia”, dice Rowaida Kanaan

Nel 2019 i procuratori federali tedeschi hanno accusato un ex colonnello siriano, Anwar Raslan, di complicità in crimini contro l’umanità. Per farlo, hanno usato un principio chiamato giurisdizione universale, che permette a paesi come la Germania di perseguire i crimini di guerra ovunque siano commessi.

Prima di disertare nel 2012 e chiedere asilo in Germania, Raslan era stato a capo di un ufficio del servizio segreto siriano particolarmente crudele, la Sezione 251, a Damasco. Per questo l’accusa ha ritenuto che Raslan fosse stato complice di torture, omicidi e violenze sessuali. È l’ufficiale più alto in grado a finire in tribunale per le atrocità commesse in Siria.

Il processo a Raslan è cominciato nell’aprile 2020 e il 13 gennaio – ventuno mesi, 108 udienze e più di ottanta testimoni dopo – è arrivato alla conclusione. Quando il sole ha cominciato a sorgere, circa cinquanta persone, molte delle quali siriane, erano in coda, in attesa di entrare nell’aula del tribunale. Alcune donne di Syria campaign, un gruppo che si occupa di mobilitare le persone nel mondo per fermare le violenze in Siria, tenevano in mano le foto dei loro cari ancora scomparsi in patria e avevano organizzato un piccolo sit-in al freddo. Una decina di troupe televisive filmava la coda di persone e le manifestanti.

“Quando sono arrivata ero un po’ preoccupata”, ha detto una delle partecipanti al presidio. “E se accadesse qualcosa di deludente? Come ci sentiremmo tutti noi, dentro e fuori la Siria?”.

Sollievo e soddisfazione

All’apertura dell’udienza, verso le 10.30, l’aula era stracolma. Tutti i trentasei posti a sedere in tribuna, separati da pannelli di plastica trasparenti a causa della pandemia, erano occupati dal pubblico e dai giornalisti. C’erano anche una decina di siriani che hanno partecipato come parte lesa, insieme ai loro avvocati.

La giudice Anne Kerber, a capo della giuria di cinque magistrati che ha esaminato il caso, ha annunciato subito che Raslan sarebbe stato condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità. Poi ha impiegato le sei ore successive a spiegare le motivazioni della sentenza, con due traduttori che ripetevano tutto in arabo.

Raslan era “un arrivista in un regime totalitario”, ha affermato Kerber. “Ma non era solo un ingranaggio nell’apparato del regime”. Sapeva cosa succedeva in quel carcere e lo accettava. Di conseguenza, i giudici dell’alta corte regionale hanno ritenuto l’uomo complice del governo siriano nell’uccisione di ventisette persone e nella tortura di altre quattromila tra il 2011 e il 2012, oltre che colpevole di altri capi d’imputazione per violenza fisica e sessuale e detenzione illegittima.

Tuttavia, la giuria non ha ritenuto ci siano aggravanti per escluderlo dalla possibilità della libertà vigilata. “I reati si sono verificati molto tempo fa e da allora l’imputato non ne ha più commessi”, ha spiegato Kerber. “Ha aiutato alcune persone a uscire di prigione e ne ha trattate bene altre”.

Dalla stampa araba
Verdetto storico

I giornali arabi sperano che altri paesi seguano l’esempio della Germania e danno voce alle vittime delle violenze

I mezzi d’informazione arabi sottolineano l’importanza del verdetto del tribunale di Coblenza, considerato come una speranza per i siriani, e in molti danno voce ai sopravvissuti e ai familiari delle vittime del regime. Asharq al Awsat afferma che “la Germania comincia a scrivere la storia della giustizia per i siriani”. Il quotidiano panarabo si augura che il verdetto sia “un primo passo verso la giustizia per gli innumerevoli siriani che hanno subìto abusi dal governo del presidente Bashar al Assad nel lungo conflitto del paese”.

Intervistato da L’Orient-Le Jour, l’avvocato siriano per i diritti umani Anwar al Bunni commenta: “Non si tratta di una vittoria personale. Questo processo è per tutte le vittime del regime di Assad e per il futuro della Siria”. Il quotidiano libanese sottolinea che per la prima volta sono state presentate in un’aula di tribunale alcune immagini del dossier che contiene 50mila foto fornite da Caesar, pseudonimo attribuito a un ex ufficiale della polizia militare siriana incaricato di documentare la morte e le torture inflitte ai detenuti nelle carceri di Assad tra il 2011 e il 2013 e fuggito dal suo paese nel luglio 2013.

Wafa Mustafa, un’attivista siriana di 31 anni esiliata in Germania e che si batte per scoprire il destino del padre, di cui non ha notizie dal suo arresto nel 2013 a Damasco, e delle centomila persone scomparse nel paese, ha confermato che si tratta di una tappa importante, ma insufficiente di fronte all’ampiezza dei massacri commessi dal regime. Come fa notare Al Quds al Arabi, Anwar Raslan ed Eyad al Gharib, un ex agente dei servizi segreti siriani condannato nel corso dello stesso processo a quattro anni e mezzo di carcere per complicità in crimini contro l’umanità nel marzo 2021, “avevano rotto con il regime e hanno rischiato la vita per la loro diserzione”. Gli alti responsabili politici e militari “che continuano ad arrestare, torturare e stuprare” sfuggono tuttora alla giustizia. Tuttavia, ammette il giornale panarabo, la sentenza costituisce “una base legale per processare i servizi segreti siriani”.

The Syrian Observer ricorda che finora tutti gli sforzi per giudicare gli autori e i complici dei crimini commessi dal regime di Assad si sono scontrati con due ostacoli: il fatto che la Siria non abbia firmato lo statuto di Roma, il testo fondante della Corte penale internazionale (Cpi); e il veto della Russia, alleata di Damasco, al Consiglio di sicurezza dell’Onu, che ha bloccato tutti i tentativi di appellarsi alla Cpi. Nonostante le difficoltà, scrivono quattro funzionari dell’Onu su Al Jazeera, gli sforzi per processare i responsabili dei crimini continuano in altri stati, tra cui Austria, Belgio, Norvegia, Svezia, Svizzera e Stati Uniti. “In Siria non è possibile ottenere una giustizia indipendente ed equa e il Consiglio di sicurezza è bloccato. In questo contesto i tribunali nazionali, anche se limitati, offrono alle vittime uno spiraglio di giustizia”.

Il settimanale indipendente siriano Enab Baladi riporta l’amarezza e le speranze dei siriani. Come sottolinea l’attivista per i diritti umani Hossam al Qatlabi, il processo conferma che il ruolo dei siriani è ancora limitato a quello di testimoni o vittime. Inoltre, nota il giornalista Mansour al Omari, “è stato omesso uno dei princìpi centrali del diritto umanitario internazionale: il risarcimento delle vittime”. Esagerare l’importanza del processo “può danneggiare le vittime”, conclude Diab Sariya, tra i fondatori dell’Associazione dei detenuti e dei dispersi del carcere di Sednaya: “Non bisogna dimenticare che il centro di detenzione di Al Khatib è ancora in funzione e la comunità internazionale non deve pensare che la questione sia finita e che sia il caso di ristabilire i rapporti con il regime siriano”. ◆


Dopo la sentenza l’umore nell’aula era di sollievo più che di gioia. “Ho lavorato su questo caso per due anni e sono semplicemente sollevata”, ha detto Joumana Seif, ricercatrice dell’European center for constitutional and human rights, che ha dato supporto a diverse vittime di torture durante il processo. “In particolare quando ho visto che i sopravvissuti erano soddisfatti. È un riconoscimento legale del loro dolore e della loro sofferenza”.

“È un primo passo, una cosa su cui possiamo basarci in futuro”, dice Musallam al Quwatli, un sopravvissuto che soffre ancora di problemi psicologici dopo essere stato torturato nella Sezione 251 nel 2011.

Nella breve conferenza stampa che si è svolta all’esterno dopo la fine dell’udienza anche gli avvocati che hanno assistito i sopravvissuti si sono detti soddisfatti, sottolineando la necessità di altri procedimenti come questo. Gli avvocati di Raslan, come prevedibile, hanno detto che presenteranno ricorso in appello.

Nessuna reazione

“Penso che la sentenza sia giusta. Ha ristabilito la mia fede nella giustizia”, ha commentato Rowaida Kanaan, una giornalista che è stata incarcerata cinque volte in Siria, anche lei parte lesa nel processo. Kanaan confessa che sperava di vedere qualche reazione da parte di Raslan. Durante tutto il processo l’ex funzionario – un uomo stempiato, con i baffi, dalla corporatura esile – è rimasto per lo più imperturbabile, curvo nella sua giacca color cachi, mentre prendeva appunti e ogni tanto chiudeva gli occhi. Non si è guardato quasi mai intorno.

“Quando la giudice gli ha detto che era responsabile di ventisette omicidi non c’è stato nulla. Nessuna reazione”, racconta Kanaan. “È quasi come se fosse ancora nello stesso posto, nella Sezione 251, a prendere appunti”. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1444 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati