Gottfried Benn, in un suo discorso del 1954 intitolato Invecchiare come problema per artisti (Adelphi, 2021), a un certo punto attribuisce con cautela all’esercizio dell’arte la capacità di allungare la vita. Elenca, a dimostrazione, un cospicuo numero di artisti che, in tempi di speranza di vita più che bassa, sono sorprendentemente vissuti parecchio. E poi ipotizza: “L’arte, per un certo aspetto della sua fenomenologia, è un fenomeno di liberazione e distensione, un fenomeno catartico, e tali fenomeni hanno i più stretti rapporti con gli organi”. Detto rozzamente: più ti liberi e distendi e purifichi, più campi; l’arte è un elisir di lunga vita prodotto e consumato dal corpo stesso dell’artista. Per tradizione, bisogna dire, l’organismo di chi fa arte, anche quando vive poco, è sempre stato considerato strepitoso, al servizio degli dei, chiaroveggente, imprudente e impudente, viaggiatore astrale nel tempo, straconscio di inconscio, custode d’etica, frequentatore di realtà parallele, eccetera. Per quanto si faccia, ancora oggi non si riesce a laicizzare fino in fondo l’artista, i suoi superpoteri resistono. Di qui l’acquisto di opere e operine nella speranza che la loro energia ci potenzi, ci risani. Di qui, soprattutto, la giusta aspirazione a scoprirci tutti creatori d’arte, in modo da liberarci, purificarci, allungarci la vita meglio che con la medicina preventiva.

Questo articolo è uscito sul numero 1430 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati