L’opera di Baru, autore francese di origini operaie e italiane, è figlia della commedia dell’arte al pari della commedia all’italiana che in Francia, terra in cui il cinema è venerato, conta grandi cultori. In questo secondo volume dell’autobiografia familiare è vero più che mai. Attraverso i personaggi e le vicende rievocate si oscilla tra l’ottocento garibaldino e il primo novecento, gli anni quaranta della guerra e del fascismo – con i balilla e i gerarchi prepotenti – e l’esplosione del rock and roll degli anni sessanta, le canzoni di Claudio Villa degli anni cinquanta (in opposizione al rock) e i balli di paese accompagnati dalla fisarmonica. E in mezzo fatica, sacrifici, umiliazioni: si stringe la cinghia ma l’umanità affiora sempre e non di rado la dignità. Niente retorica però. Baru non sa che farsene: è un vortice di caratteri umani che esprimono la loro bellezza intrinseca, malgrado i difetti e le contraddizioni, attraverso i tratti somatici. Tipologie raccontate dal cinema nei film con Jean Gabin o di Jean Renoir. Truffaut diceva che un tempo anche il parlato dei film esprimeva il carattere degli immigrati, ungheresi o italiani. Si tratti di nasoni o di tratti marcati, di dentoni o grasse risate, qui moltissimo è espresso dal segno grafico, leggero e vorticoso. Quasi un ballo, una coreografia della vita che consente all’autore di rappresentare al meglio il caro prezzo pagato dall’immigrazione italiana.
Francesco Boille

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Questo articolo è uscito sul numero 1453 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati