In francese la parola dépistage significa “prevenzione”. Così, per esempio, il dépistage del cancro è lo screening che previene l’insorgere della malattia. L’italiano depistaggio ha una connotazione diversa, ma il senso non cambia, perché si tratta di una prevenzione volta in questo caso a evitare che si manifesti la verità. In Italia, mentre molti processi su crimini gravissimi (attentati e stragi) accertano le responsabilità dei colpevoli solo dopo la loro morte, si torna a riflettere sui depistaggi che hanno provocato questi ritardi. Enrico Deaglio propone un approccio sintetico e teorico che gli consente di tornare su temi che conosce bene. Parte dalla strage di via D’Amelio a Palermo del 1992, in cui morì Paolo Borsellino, indentificata come un momento cruciale della connivenza tra mafia e poteri dello stato, e poi si muove all’indietro, mostrando come “in Italia l’arte del depistaggio si insinua fin dagli albori della repubblica”. Allarga quindi il campo allo scenario internazionale, dando conto di cinque casi che hanno scandito la storia di questa pratica: il caso Dreyfuss, l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, la dichiarazione di Colin Powell secondo cui l’Iraq aveva armi di distruzione di massa, il caso dei diari di Hitler e l’assalto al congresso statunitense. Torna infine a Palermo e, passando per Sciascia, propone un’interessante interpretazione di cosa sia la storia. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1512 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati