Le parole non si limitano a descrivere la realtà ma, quando riformulano le categorie con cui le persone la interpretano e si ricombinano in nuove definizioni, finiscono per modificarla. Il processo tuttavia è raramente lineare e a marcarlo sono intensi conflitti di qualificazione. Un caso di studio è costituito della parola “antisemita”, la cui vicenda è ricostruita nel denso e informato libro di Valentina Pisanty, semiologa esperta della memoria dell’Olocausto. Rivendicato all’inizio da quanti a fine ottocento si opponevano alla concessione dei diritti civili agli ebrei, l’antisemitismo contribuì a creare la categoria dell’“ebreo eterno” invocata dai nazisti per la soluzione finale. Perciò nel dopoguerra fu associato a crimini talmente enormi che pochi vollero appropriarsene. Un’ulteriore evoluzione ci fu con la fine della guerra fredda e la ripresa del conflitto mediorientale quando la critica di Israele cominciò a essere qualificata come “nuovo antisemitismo” e associata al vecchio repertorio. Pisanty racconta la genesi di questa equivalenza (in particolare analizzando la Working definition della parola antisemitismo, presentata nel 2016 dalla International memorial Holocaust alliance) e il suo impiego politico e offre argomenti importanti per contestarla, districando due visioni differenti della Shoah e la loro diversa politicizzazione. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1599 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati