Quando tre anni fa Rick Perry, all’epoca segretario per l’energia del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, andò in missione a Bruxelles per proporre agli europei il freedom gas, il gas naturale liquefatto statunitense, fu quasi deriso. Solo la Polonia manifestò un certo interesse. Ma, come si dice, ride bene chi ride ultimo: il 25 marzo l’Unione europea ha siglato un accordo che dovrebbe triplicare le importazioni di gas naturale statunitense in Europa. Già quest’anno dovrebbero arrivarne quindici miliardi di metri cubi in più, assicurando un aumento del 70 per cento rispetto alle forniture del 2021. Nel lungo periodo le importazioni dagli Stati Uniti dovrebbero raggiungere i cinquanta miliardi di metri cubi all’anno, una quantità che sostituirebbe un terzo del gas che oggi l’Unione europea compra dalla Russia. Bruxelles vuole differenziare le fonti di approvvigionamento, rivolgendosi “a fornitori di cui ci fidiamo”, ha dichiarato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, promotrice dell’accordo con il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. La rivista Texas Monthly ha titolato: “Ora l’Europa vuole il nostro gas!”.

In effetti, sembra che gli europei non possano fare a meno del gas dei produttori statunitensi con il cappello da cowboy e il pick-up. Dopo anni d’inutili promozioni e proposte commerciali, l’attacco di Putin all’Ucraina ha di colpo spalancato agli Stati Uniti le porte di un ricco mercato. Ma la guerra ha solo accelerato un processo già avviato nel 2021 quando, in seguito alla più grande crisi energetica in Europa dagli anni settanta, sono aumentate le navi cisterna in partenza da Houston o Corpus Christi, in Texas, e dirette a Rotterdam o Barcellona, invece che, come un tempo, verso la Cina o la Corea del Sud. Il cambiamento è il risultato di un’altra evoluzione imprevista del mercato energetico. Fino al 2015 negli Stati Uniti l’esportazione di petrolio e gas naturale era proibita. Le strutture della maggior parte dei porti del Texas e della Louisiana erano state pensate per le importazioni. Gli esperti, infatti, erano sicuri che il paese non avesse giacimenti sufficienti per rinunciare alle forniture straniere. Poi arrivò George Mitchell, il figlio di un immigrato greco che alla fine degli anni novanta inventò la tecnica della fratturazione idraulica, o fracking. Un’innovazione che lo fece diventare miliardario e diede vita a una rivoluzione: il gas e il petrolio potevano essere estratti dallo scisto bituminoso con l’acqua ad alta pressione, la sabbia e gli agenti chimici.

Enormi infrastrutture

Negli ultimi decenni il fracking ha reso gli Stati Uniti il più grande produttore di petrolio al mondo davanti all’Arabia Saudita e alla Russia, nonché il primo produttore di gas naturale. Mitchell e i suoi successori ebbero un tale successo che il prezzo del gas naturale negli Stati Uniti crollò. Mentre l’industria statunitense, in particolare il settore chimico, si rafforzò attirando nuove fabbriche, i produttori di petrolio e gas fecero campagna a Washington per annullare il divieto d’esportazione, così da poter conquistare nuovi mercati grazie ai prezzi vantaggiosi.

Trovarono un alleato insperato nel presidente degli Stati Uniti Barack Obama, entrato in carica dopo la crisi finanziaria del 2008, quando l’economia statunitense stava vivendo la sua nuova grande recessione. Milioni di posti di lavoro erano andati distrutti. Un settore, tuttavia, era alla disperata ricerca di personale: quello del fracking. Al posto della svolta verde annunciata in campagna elettorale, Obama dichiarò subito la sua nuova dottrina per la politica energetica: tutte le fonti d’energia erano sullo stesso piano.

Per nascondere il radicale allontanamento dagli obiettivi ambientali, l’amministrazione Obama dichiarò che il gas naturale era un’alternativa pulita – e perfino ecologica – al carbone. Non era una coincidenza. Prima che Ernest Moniz fosse nominato segretario per l’energia a Wash­ing­ton, il fisico nucleare era stato tra gli autori di uno studio intitolato The future of natural gas (Il futuro del gas naturale). Nella ricerca, pubblicata nel 2011, il gas naturale era definito “combustibile ponte” verso un futuro verde. Moniz aveva lavorato a quel documento come capo di un gruppo di studio collegato al prestigioso Massachusetts institute of technology (Mit). Le ricerche erano state finanziate, tra gli altri, da una fondazione con il promettente nome di American clean skies foundation. Tra i promotori della fondazione “cieli puliti” c’era Aubrey McClendon, all’epoca amministratore delegato della Chesapeake, una delle principali aziende che estraevano gas naturale con il fracking. Nel frattempo le tesi delle studio di Moniz sono state confutate da altri scienziati e climatologi. L’estrazione del gas con il fracking rilascia enormi quantità di metano, un gas serra molto più dannoso per il clima rispetto all’anidride carbonica. Nel 2019 alcuni ricercatori hanno calcolato quanto metano finisce nell’atmosfera durante un’operazione di fracking: in una settimana si arriva a più di quattro tonnellate, che corrispondono all’inquinamento causato da 142 voli trans­atlantici.

Spinta dalle pressioni economiche, di recente anche l’Unione europea ha dichiarato il gas naturale un combustibile verde. L’argomento alla base è ancora una volta che è più pulito del carbone. E sembra offrire una soluzione rapida e collaudata agli attuali colli di bottiglia. È tempo di realpolitik, hanno detto molti politici a Berlino, Bruxelles e Washington. Ma il gas naturale liquefatto ha bisogno di enormi infrastrutture, che richiederanno anni e costeranno miliardi. La progettazione del terminal vicino a Houston, in Texas, da cui oggi partono le petroliere per l’Europa e l’Asia, è cominciata nel 2002 e la costruzione nel 2005, mentre solo alla fine del 2019 la prima nave commerciale ha preso il largo.

Non tutti i texani sono entusiasti degli affari e dei posti di lavoro che arriveranno grazie all’accordo con gli europei. Gli ambientalisti che da anni combattono l’inquinamento nello stato si sono rivolti a Biden, dicendo che non dovrebbe distruggere l’ambiente per fornire gas all’Europa. Emma Guevara, attivista dell’ong Sierra club, ha affermato che il nuovo piano non è solo pericoloso, ma anche indifferente alla chiara opposizione dei residenti della valle del Rio Grande: “Non vogliamo essere sacrificati per i combustibili fossili”. Anche il “gas della libertà” statunitense ha un prezzo: la salute delle persone e quella dell’ambiente. ◆ nv

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Questo articolo è uscito sul numero 1454 di Internazionale, a pagina 108. Compra questo numero | Abbonati