Scrivere un memoir è un’impresa. Raccontare la propria vita può sembrare facile, ma andando avanti ci si rende conto che il racconto autobiografico ha più a che vedere con la finzione che con la realtà e si va in crisi. Infatti, fra tranelli della memoria, vuoti e tensioni su quello che si può o non si può dire, ci si accorge che scrivere di sé è una roulette russa: c’è sempre in agguato il colpo letale. Di questa difficoltà si è subito resa conto Sabrina Efionayi che dichiara nel suo incipit che più entrava nella sua storia più non riusciva a scrivere. Più s’inabissava nella sofferenza della sua vita più le sembrava troppo. E così con un espediente narrativo, semplice ed essenziale, si è trasformata da testimone degli eventi a un personaggio guidato da un’autrice. Sabrina la scrittrice che scrive di Sabrina personaggio. E da lì la storia comincia a prendere forma, a cavallo tra Italia e Nigeria, con due donne – Gladys, arrivata in Italia a 19 anni e costretta a vendere il suo corpo, e la napoletana Antonietta – entrambe madri di Sabrina. Una storia che si dipana tra Scampia e Castel Volturno, tra Prato e Lagos, e al centro un’identità che non è semplicemente definita dalle origini africane o europee, ma che parla di colpe, omissioni, amore e speranza.
Igiaba Scego

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Questo articolo è uscito sul numero 1458 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati