Arianna Farinelli, dopo Gotico americano, ha sfornato un altro libro mozzafiato. È un memoir, intimo, politico, sociale, molto adatto a ogni fascia d’età, dove l’Arianna ragazza si svela senza filtri, nella sua nuda essenza. Racconta la borgata romana in cui è cresciuta e lo fa in modo duro, forte e a ben vedere leale. Perché Farinelli non romanticizza la borgata e non ne fa un luogo dell’anima ma invece quello delle esperienze, non tutte piacevoli. Perché essere una ragazza ai tempi di Arianna, classe 1975, era difficile, come in fondo pure oggi. Perché il corpo femminile è letto male, usato male. Perché, nonostante i sogni e lo sforzo che ci si mette per andare a scuola, può arrivare la violenza. Questo è un romanzo che la violenza la fa vedere nel linguaggio, nelle azioni, nelle frasi sincopate, brevi. Infatti l’italiano parlato dai personaggi nasconde sotto di sé il romanesco, un dialetto che al pari del napoletano dei libri di Elena Ferrante fa intravedere un vuoto. È un libro che dialoga con altri libri. Quelli di Annie Ernaux o di bell hooks. Ed è un libro che a un certo momento ci trasporta da un’altra parte, un altrove geografico, New York, dove Arianna s’innamora. Però il passaggio non è privo di lacerazioni e né di quella che Edward Said definì la sensazione di trovarsi sempre nel posto sbagliato. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1598 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati