Entrare nel famoso club di Berlino Berghain può essere davvero un compito arduo, anche per alcuni dei più noti dj del mondo. Per questo convincere l’Unesco a concedere lo status di patrimonio culturale immateriale dell’umanità alla techno berlinese non è una sfida che può far paura più di tanto.

Gli artisti che hanno dato vita alla leggendaria Love Parade, i dj che hanno aperto la strada alla techno e gli impresari dei più grandi club della capitale tedesca credono che il sostegno dell’organismo delle Nazioni Unite sia vitale per assicurare il futuro di questo genere musicale, che è anche un fenomeno controculturale.

I martellanti ritmi meccanici della techno emersero a Detroit a metà degli anni ottanta, e quando il muro di Berlino cadde, gli abitanti della capitale tedesca la adottarono come perfetta colonna sonora della riunificazione. Le centrali elettriche, le fabbriche e i bunker abbandonati nella parte est della città brulicavano di ragazzi e ragazze di entrambi i lati del muro che celebravano la loro libertà.

Minacce e prospettive

Eppure il covid-19 e l’imborghesimento diffuso rappresentano una minaccia alla sopravvivenza della “Berlino libera, selvaggia e creativa”, secondo Alan Oldham, un dj di Detroit che faceva parte del collettivo Underground Resistance e che vive nella capitale tedesca. “La protezione dell’Unesco sarebbe molto utile per mantenere quel vecchio spirito”, spiega. “Locali storici come il Tresor e il Berghain, per esempio, sarebbero salvaguardati come punti di riferimento culturali”.

“Tanti locali hanno chiuso nei sette anni in cui ho vissuto qui”, prosegue. “In altre città, sarebbe il naturale ciclo di ricambio dei locali, ma Berlino è diversa: club e scene creative sono il vero valore aggiunto della città”. Oldham, il cui programma radiofonico negli anni ottanta ha dato alla techno la sua prima tribuna, è tra quanti sostengono la campagna di Rave the Planet, un’associazione formata da Matthias Roeingh, meglio conosciuto come Dr Motte, il dj che ha fondato la Love Parade. Rave the Planet sta facendo pressione sulle autorità tedesche affinché chiedano all’Unesco lo status di patrimonio dell’umanità per la techno berlinese.

Il club Tresor di Berlino (Agencja Fotograficzna Caro /Alamy)

Questo particolare riconoscimento è concesso alle attività più disparate, come la danza malawiana mwinoghe o la cultura slovacca della cornamusa, ma sono stati riconosciuti anche il reggae giamaicano e il gigantesco festival indiano Kumbh Mela. E il governo dei Paesi Bassi ha sostenuto anche la candidatura del Pride di Amsterdam. Se la techno riuscisse a ottenere il riconoscimento sarebbe più facile ricevere sussidi governativi o altre fonti di finanziamento, e i club sarebbero tutelati ai sensi delle leggi urbanistiche. “La protezione dell’Unesco aiuterebbe a definire la techno e la _club culture _come una forza sociale accettabile, con un suo valore storico, e non solo una musica edonistica, usa e getta, fatta di club e droghe”, dice Oldham. “E alla fine, chissà, potrebbe beneficiarne anche la mia città, Detroit”.

Riunificazione e libertà

Dimitri Hegemann, che ha fondato il club Tresor nei sotterranei di un ex grande magazzino a Berlino Est, è un altro sostenitore dell’iniziativa. “Dopo la caduta del muro, la techno ha trasformato Berlino”, racconta. “Piaceva ai ragazzi dell’est e piaceva ai ragazzi dell’ovest. Così ha finito per creare un legame tra di loro. Era un’occasione per provare qualcosa di nuovo, come dopo la seconda guerra mondiale, quando a Parigi arrivò Miles Davis con il cool jazz”.

“Tra il 1989 e il 1990 i giovani dei paesi dell’est, come la Polonia, venivano al Tresor e nessuno parlava inglese. Questa nuova generazione della Detroit techno, del collettivo Underground Resistance e così via, non aveva parole. Non c’erano messaggi stupidi. C’era solo musica sulla quale si poteva ballare”.

Dopo la caduta del muro, la techno ha trasformato Berlino. Piaceva ai giovani dell’est e dell’ovest e ha finito per creare un legame tra di loro

La techno è ancora parte del tessuto della città, secondo Peter Kirn, un dj e produttore musicale di Berlino. “Puoi letteralmente sentire questa musica rimbombare in ogni angolo. È davvero ovunque”, dice. “In altre città, la gente non accetterebbe una musica così dura o strana, piena di sintetizzatori e drum machine, davvero brutale e distorta. In un club normale questa roba non la puoi suonare quando c’è un sacco di gente, figuriamoci a pranzo. Invece qui è totalmente accettabile, anche a mezzogiorno”.

Inizialmente Kirn era scettico sulla candidatura all’Unesco, ma ci ha ripensato: “È proprio come per qualsiasi musica folk: c’è sempre questa specie di scontro tra il tradizionale e lo sperimentale. È questa tensione che fa progredire le cose”.

Gli artisti neri di Detroit come Oldham e Juan Atkins hanno cominciato a trasferirsi a Berlino perché la città offriva una situazione più vivibile rispetto agli Stati Uniti, sia in termini di finanziamento delle arti sia di welfare e di assistenza sanitaria, spiega Kirn. La città è al centro della musica elettronica: è qui che hanno sede aziende come la Ableton e la Native Instruments, che producono il software e gli strumenti alla base di buona parte dei beat di oggi.

“La techno è diventata un rifugio per le persone che sono emarginate e Berlino ha un’attrattiva particolare, è un luogo molto permissivo, specialmente per chi arriva da posti più arretrati”, spiega Kirn.

“Berlino si trova su questa linea di frontiera tra Europa occidentale ed Europa orientale. La maggior parte dell’attenzione è dovuta a quello che ha significato negli anni novanta, quando è caduto il muro. Ma anche quello che succede oggi merita attenzione. La Georgia è in crisi, la Polonia è in crisi, la Russia è in crisi. E così le persone di tutti questi paesi guardano a Berlino come un punto di riferimento in attesa di risposte sociali radicali”. ◆ ff

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Questo articolo è uscito sul numero 1439 di Internazionale, a pagina 85. Compra questo numero | Abbonati