“Ora che non ci sono più è la loro resistenza a mancarci. A differenza dell’albero del fiume o della nuvola gli animali avevano occhi e nel loro sguardo c’era permanenza”. Come sempre, lo scrittore e critico d’arte britannico John Berger con una semplice poesia, Loro sono le ultime, ci diceva qualcosa di estremamente profondo su come potrebbe essere – e molto presto – un mondo senza animali. Lo faceva in modo non scontato: raccontandoci non presunti problemi degli ecosistemi, ma problemi per così dire estetici. Dove sono finiti gli animali? Perché non li vediamo più da nessuna parte? La raccolta di scritti Perché guardiamo gli animali? (Il Saggiatore 2016) è una denuncia incentrata sulla considerazione del paradosso per cui, osservava Berger, l’unico luogo in cui pensiamo di vedere le bestie – lo zoo - è in realtà anche l’unico posto in cui è impossibile vederle davvero. Una tigre in gabbia non è più una tigre, perde la sua “tigrezza” e così tutti gli altri abitanti di quegli abomini dell’etologia immorale che sono stati i giardini zoologici. Gli animali esistono ancora, ma sono in trappole che non gli consentono di essere: liberarli significa darci la possibilità di osservare di nuovo la permanenza delle cose del mondo, che gli animali portano nei loro sguardi. Cos’è la realtà della vita prima delle favole che inventiamo per coprirne il cinismo? Cosa significa essere un animale a prescindere dalla parola “animale” che ne cattura le forme simboliche? E che animale siamo, infine, anche noi stessi? ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1518 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati