In questi giorni ricorre il ventesimo anniversario dell’inizio delle operazioni militari che portarono all’invasione e all’occupazione dell’Iraq da parte di una coalizione internazionale guidata da Stati Uniti e Regno Unito. L’obiettivo era rovesciare il presidente Saddam Hussein, in carica dal 1979, accusato di avere armi di distruzione di massa e di finanziare gruppi terroristici.

In realtà le forze di occupazione e i funzionari dell’amministrazione dell’allora presidente statunitense George W. Bush, che aveva dato il via alla guerra, non riuscirono a dimostrare l’esistenza di quelle armi né la connivenza del regime con il terrorismo. Lo stesso vale per tutte le altre giustificazioni fornite per l’operazione, che non aveva il sostegno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. I nove anni di occupazione statunitense causarono un numero spaventoso di vittime. Secondo la piattaforma Iraq body count fino al ritiro delle truppe statunitensi, avvenuto nel 2011, ci furono più di centomila morti tra i civili iracheni e 4.500 tra i soldati americani. In quell’anno Washington smantellò tutte le basi militari e i posti di blocco, lasciando sprofondare l’Iraq nell’anarchia e favorendo la diffusione delle milizie armate e del contrabbando di armi.

L’Iraq soffre ancora le conseguenze della decisione dell’Autorità provvisoria della coalizione – il governo di transizione guidato dall’ambasciatore statunitense Paul Bremer dal 2003 al 2004 – di includere nei ministeri della difesa e dell’interno persone che appartenevano alle milizie finanziate dall’Iran o create subito dopo l’invasione. L’operazione militare rovesciò il sistema politico nato dal colpo di stato contro la monarchia del 1958, “nel tentativo di costruire un governo democratico, pluralista e sovrano”, secondo la visione statunitense.

Ma se la guerra riuscì a eliminare il regime di Saddam, non si può dire che raggiunse gli altri obiettivi, per esempio gettare le basi per una democrazia.

Tra i risultati più importanti dell’invasione ci sono: la guerra civile scoppiata tra il 2006 e il 2008, l’indebolimento delle istituzioni statali e l’instaurazione di un sistema politico che distribuiva potere e risorse su base confessionale, che era regolato dalle intese tra i principali partiti e amministrato dalla potenza occupante. Il sistema entrò in vigore senza che fosse fatto prima un censimento della popolazione per determinare la rappresentanza di ciascuna delle tre componenti fondamentali della società irachena: sunniti, sciiti e curdi.

Gruppi d’influenza

Gli Stati Uniti, che si ritirarono dopo aver firmato un accordo di sicurezza con Baghdad nel 2008, lasciarono il paese nelle mani dell’Iran e dei gruppi armati iracheni alleati di Teheran. L’Iran e le milizie alleate sono riuscite a trasformare l’Iraq in un cuscinetto contro le sanzioni statunitensi imposte nel 2018 da Donald Trump, usando la sua fornitura di gas, l’elettricità e i suoi beni di consumo per salvare l’economia iraniana, con un fatturato di più di dieci miliardi di dollari all’anno.

L’invasione dell’Iraq ha contribuito anche alla nascita e alla riattivazione dei movimenti jihadisti. Gli Stati Uniti e altri paesi, anche in Medio Oriente, spendono ogni anno decine di miliardi di dollari per “la guerra globale al terrorismo”, che si intensificò dopo che il gruppo Stato islamico conquistò Mosul nel 2014 espandendosi nel nordovest dell’Iraq e nel nordest della Siria.

L’invasione dell’Iraq ha modificato gli equilibri regionali e internazionali e ha spalancato le porte a nuove potenze nel paese e nell’area. Alcuni analisti occidentali ritengono che abbia contribuito a diffondere tra i giovani una nuova coscienza politica, che rifiuta le dittature, i regimi militari e la successione dinastica del potere. Secondo loro l’invasione sarebbe una delle cause della primavera araba scoppiata in Tunisia alla fine del 2010 e dilagata prima in Egitto, Libia, Yemen e Siria, e nel 2019 in Algeria e Sudan.

Questi movimenti hanno coinvolto anche l’Iraq: nel 2013 ci furono diverse mobilitazioni nelle province sunnite; nel 2019 le proteste a Baghdad e nel centro e nel sud del paese a maggioranza sciita hanno portato alla caduta del governo di Adel Abdul-Mahdi. Non hanno però smantellato il sistema politico fondato da Washington. Il “nuovo” Medio Oriente appare diviso tra due gruppi d’influenza. Da un lato ci sono Russia, Cina e Iran, dall’altro Stati Uniti e Israele. La maggior parte dei paesi arabi cerca di preservare lo status quo, creando alleanze politiche e militari ogni volta diverse.

A distanza di vent’anni, l’invasione statunitense ha lasciato l’Iraq impantanato nella corruzione finanziaria e amministrativa. Lo stato ha perso tutta la sua autonomia decisionale in materia di sicurezza ed economia, lasciando spazio a fazioni che ricorrono alle armi per imporre la loro volontà. L’Iraq è inoltre diventato un campo di battaglia per le altre potenze regionali e internazionali, in particolare gli Stati Uniti e l’Iran, che cercano di esercitare la loro influenza sul paese, mentre le forze politiche irachene sono sottomesse a equilibri e alleanze instabili.

L’Iraq appare dunque ancora lontano dalla democrazia. Nel paese c’è piuttosto un sistema ibrido, fondato sull’intesa tra i capi dei partiti più influenti che si spartiscono poteri e risorse, sia per la rappresentanza in parlamento sia per i servizi da erogare nelle varie zone del paese. Dopo anni di guerre interne e conflitti settari, gli Stati Uniti e la maggior parte delle forze che contavano sul rinnovamento del governo di Baghdad non credono più che il paese possa diventare un trampolino di lancio per la democrazia, la libertà di espressione e la coesione sociale in Medio Oriente. ◆ abi

Raed al Hamid è un ricercatore indipendente iracheno, esperto di gruppi armati ed ex consulente dell’International crisis group.

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Questo articolo è uscito sul numero 1504 di Internazionale, a pagina 35. Compra questo numero | Abbonati