La decisione del comitato norvegese per il Nobel di assegnare il premio per la pace alla giornalista filippina Maria Ressa (e al russo Dmitrij A. Muratov) arriva in un momento più che mai cruciale della politica del paese asiatico, in vista di un voto, quello delle presidenziali del marzo 2022, che metterà alla prova il futuro della sua democrazia. Per tutto l’anno Ferdinand “Bongbong” Marcos Jr., figlio dell’ex dittatore, e la sindaca di Davao Sara Duterte, figlia dell’attuale presidente Rodrigo Duterte, sono stati i più probabili successori alla guida del paese. Con i dati sul consenso dell’opinione pubblica in caduta libera, la coalizione al potere comincia però a somigliare a una nave che affonda. Avvertendo la debolezza, la famiglia Marcos ha cominciato a erodere la base del presidente, mentre un gruppo di carismatici candidati centristi e d’opposizione ha approfittato della diffusa delusione nei confronti dello stesso Duterte, che guida un paese colpito da una delle peggiori recessioni provocate dalla pandemia in Asia e con tassi di contagio tra i più alti della regione.

Dopo cinque anni di incompetenza e populismo, dalla strategia della terra bruciata nella guerra alla droga a un corteggiamento di Pechino che non è servito a nulla, il vento per Duterte e i suoi successori designati sta cambiando. Il fatto che in pochi l’avessero previsto sottolinea l’intrinseca imprevedibilità della politica nelle Filippine. Fino a poco tempo fa Duterte sembrava avere la forza e la popolarità sufficienti a trovare un modo per restare al governo, aggirando il limite del mandato di sei anni candidandosi a fare il vice in un’eventuale presidenza della figlia Sara, nonostante molti esperti legali avessero avvertito che una mossa simile avrebbe indebolito lo spirito della costituzione. Dopo che la Corte penale internazionale ha formalmente avviato un’indagine sulle accuse di atrocità di massa compiute durante il suo mandato, Duterte ha ammesso apertamente che il suo tentativo di restare al potere era finalizzato soprattutto a evitare di dover rispondere di qualsiasi presunto abuso, in particolare della sua sanguinosa guerra contro la droga che ha provocato la morte di migliaia di persone. “La legge dice che se sei vicepresidente hai l’immunità. E allora mi candiderò alla vicepresidenza”, ha ammesso in un discorso pubblico, esprimendo i suoi timori su un possibile processo dopo la fine del suo incarico. La sua alleata di un tempo, l’ex presidente Gloria Macapagal Arroyo, si è candidata con successo al congresso, diventando anche speaker della camera nel tentativo, si dice, di evitare un possibile procedimento penale per uno scandalo di corruzione risalente a quand’era presidente.

Calo nei sondaggi

Nel giro di poco tempo, però, Duterte ha visto la sua popolarità sprofondare e i suoi alleati fuggire in massa. Prima si sono registrate le defezioni all’interno del suo partito, il Partido demokratiko pilipino-lakas ng bayan (Pdp-Laban): il pugile Emmanuel “Manny” Pacquiao, presidente del Pdp-Laban, a settembre si è candidato alla presidenza. Poi c’è stata una nuova ondata di scandali su attrezzature mediche comprate a prezzi gonfiati da fornitori del governo, che ha fatto infuriare gli elettori. Duterte ha gettato benzina sul fuoco minacciando pubblicamente – e insultando personalmente – i senatori che indagavano sul caso. Al tempo stesso ha sprecato il suo vantaggio iniziale prima tentennando e poi designando come suo successore il senatore Christopher “Bong” Go, a lungo suo consigliere, mandando su tutte le furie la figlia Sara, che ha minacciato di ritirarsi dalla competizione elettorale. Non è ancora chiaro se Sara si candiderà all’ultimo minuto al posto di uno dei prestanome del Pdp-Laban che hanno già registrato la loro candidatura.

La verità è che oggi la presa sul potere di Duterte è più fragile che mai. Negli ultimi nove mesi il consenso per il presidente è crollato al 21 per cento. E la maggioranza dei filippini, compresi gli abitanti di Mindanao, l’isola dov’è nato Duterte, è contraria alla sua idea di candidarsi alla vicepresidenza. Secondo gli ultimi sondaggi l’accoppiata Duterte-Duterte non è più favorita e a inizio settembre il presidente uscente aveva undici punti di svantaggio rispetto al senatore Vicente Sotto III, della Coalizione nazionalista del popolo. Mentre Sara Duterte aveva perso otto punti, finendo alla pari con Marcos e gli altri due candidati centristi. Altri sondaggi suggeriscono una competizione ancora più serrata con Marcos e il sindaco di Manila Francisco “Isko” Moreno in ascesa.

Un nuovo colore

Arrivato alla fine del mandato, Duterte è ormai l’ombra di se stesso, alla guida di una coalizione in disfacimento. Cogliendo i presagi infausti, ha annunciato il suo ritiro dalla politica, anche se cercherà un incarico in qualche amministrazione locale per proteggersi da future condanne. I candidati centristi come Isko Moreno e Pacquiao hanno accusato il loro ex alleato d’incompetenza e di plundemic, una parola composta per indicare i saccheggi di massa (plunder) avvenuti durante la pandemia.

Intenzionata a impedire ai Marcos di riconquistare il palazzo di Malacanang, l’attuale vicepresidente Leni Robredo, ­leader di fatto dell’opposizione, è a sua volta salita sul ring invocando la fine della “vecchia politica corrotta” nelle Filippine. In un colpo di genio tattico, Robredo e i suoi hanno rinnovato l’immagine dell’opposizione liberale mettendo l’accento sulle politiche progressiste, promuovendo la costruzione di una coalizione inclusiva, usando una retorica più accesa e adottando letteralmente un nuovo colore – il rosa – per dare un segnale di cambiamento rispetto alla logora politica liberale “gialla” che ha perso consensi tra i più giovani.

In questo contesto il Nobel per la pace a Maria Ressa, il primo vinto da una filippina, non ha fatto altro che rafforzare la determinazione delle forze progressiste e liberali del paese che hanno lottato collettivamente per la libertà contro l’ondata di populismo autoritario. Oggi le elezioni presidenziali del marzo 2022 sembrano un circo caotico, ma rappresentano un’opportunità storica per salvare e riportare in vita una democrazia piuttosto malridotta. ◆ gim

Richard Heydarian insegna all’università politecnica delle Filippine. Ha scritto The rise of Duterte: a populist revolt against elite democracy (Palgrave Pivot 2018).

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Questo articolo è uscito sul numero 1432 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati