È stata uccisa da un proiettile al volto mentre faceva il suo lavoro. Era palestinese e si ostinava a portare al mondo la voce degli altri quando il mondo non voleva sentire. L’annuncio della sua morte la mattina dell’11 maggio ha ricordato la minaccia che insegue i giornalisti nella regione, il perdurare della tragedia palestinese e la sua centralità, almeno sul piano emotivo, dall’Atlantico al Golfo arabo.

Shireen Abu Akleh, 51 anni, è stata uccisa mentre indossava un casco e un giubbotto antiproiettile con la scritta “stampa”. È stata uccisa mentre svolgeva la sua missione – informare – nel campo profughi di Jenin, sottoposto alle incursioni quotidiane dell’esercito di occupazione israeliano nel quadro di un’operazione definita di “antiterrorismo”. Figura di spicco della tv panaraba Al Jazeera, era conosciuta da decine di milioni di telespettatori. Ma lavorare per un grande mezzo di comunicazione non protegge da nulla. Abu Akleh è stata uccisa a quasi un anno esatto dal bombardamento israeliano della torre che ospitava le sedi di Al Jazeera e dell’Associated Press nella Striscia di Gaza. Chi ha sparato a Shireen Abu Akleh? E perché lo stato ebraico rifiuta un’inchiesta internazionale indipendente?

Senza sostanza

Queste domande sembrano quasi retoriche. Tutti gli sguardi, o quasi, sono puntati su Israele, tanto più che Tel Aviv ha cambiato più volte versione, moltiplicando gli insabbiamenti, cercando prima di addossare la colpa a dei cecchini palestinesi e poi di ritrattare e dichiarare che la giornalista era stata uccisa in uno scambio di colpi di arma da fuoco e non era possibile determinare quale le era stato fatale.

Eppure, nonostante questa comunicazione delirante, nessun alleato di Israele nel mondo occidentale sembra disposto a chiedergliene conto. Il portavoce del dipartimento di stato statunitense Ned Price ha tagliato corto pubblicando un tweet in cui deplora la morte di Abu Akleh e invoca alcuni princìpi generali sulla libertà di stampa. Tutto qui. Nessun cenno a Israele. Come se le circostanze dell’omicidio fossero state svuotate della loro sostanza politica, nonostante la giornalista fosse anche cittadina statunitense. Al contrario, Price non aveva tergiversato in seguito all’uccisione in Ucraina del regista statunitense Brent Renaud a marzo, che era “un macabro esempio delle azioni indiscriminate del Cremlino”, in riferimento all’invasione russa del 24 febbraio.

La moderazione dopo la morte di Abu Akleh conferma una cosa: Israele resta agli occhi degli Stati Uniti e dell’Europa – dopo più di mezzo secolo di occupazione, colonizzazione ed espropri – uno stato di diritto, la famosa “unica democrazia del Medio Oriente” a cui sono tanto affezionati. Anche se la responsabilità d’Israele nell’uccisione della giornalista fosse ufficialmente riconosciuta, sarebbe percepita come accidentale, indipendente dal sistema israeliano.

Nel contesto palestinese si tratta dell’omicidio relativamente ordinario di una donna che ordinaria non era, uccisa lo stesso giorno di Thaer Maslat, 16 anni – decimo minorenne quest’anno – e all’indomani della distruzione di un’abitazione palestinese a Gerusalemme Est, che ha lasciato 35 persone in rovina.

Non è la prima volta che Israele viola la libertà di stampa. Nell’aprile 2018 due giornalisti palestinesi che seguivano la marcia del ritorno nella Striscia di Gaza furono uccisi dallo stato ebraico: Ahmad Abu Hussein, di radio Sawt al Shaab, e Yasser Mourtaja, fondatore di Ain Media, un’agenzia indipendente. Il paese ha dei trascorsi notevoli anche in materia di repressione. Secondo la ricercatrice Stéphanie Latte Abdallah, tra il 1967 e oggi quasi il 40 per cento degli uomini della Cisgiordania e della Striscia di Gaza sono stati detenuti.

La morte di Shireen Abu Akleh ha suscitato una forte emozione nel mondo arabo. Un impeto di rabbia e tristezza largamente condiviso sui social network, che ricorda come Israele non sarà mai considerato uno stato “normale” dai suoi vicini fino a quando dureranno l’occupazione e la colonizzazione. E questo nonostante tutti gli sforzi di normalizzazione fatti negli ultimi anni. Finché gli occidentali – a cominciare da Washington, unico attore internazionale che ha la capacità d’influenzare la politica israeliana – continueranno a difendere in modo incondizionato il loro alleato o a crogiolarsi nella vigliaccheria dei discorsi che mettono sullo stesso piano la violenza dell’occupante e quella dell’occupato, il loro riferimento ai “diritti umani” in altre circostanze sarà sempre accolto con sospetto, se non con ostilità, da settori non trascurabili del mondo arabo. E fornirà materiale utile a tutti gli anti-imperialisti pronti a seguire qualsiasi tiranno, purché mostri i muscoli contro Washington, anche se appoggia le invasioni russe in Siria o in Ucraina.

Il senso della solidarietà

La tendenza a usare due pesi e due misure – o peggio a mettere in competizione le sofferenze degli uni e degli altri – porta solo all’abisso. Disumanizza le vittime, trasformate in variabili per convenienza ideologica, e rimette in discussione il senso della solidarietà in un mondo che ne ha bisogno più che mai. Per via del carattere universale delle loro aspirazioni, palestinesi e ucraini hanno in comune più di quanto non lascino pensare i meschini calcoli geopolitici. È evidente che l’invasione dell’Ucraina rappresenta oggi una questione esistenziale per gli occidentali più dell’occupazione della Palestina, anche se l’Europa ha una responsabilità storica immensa nel dramma palestinese. Però c’è una differenza sostanziale tra darsi delle priorità e dimostrare compiacenza, se non complicità, con il colonialismo israeliano. Le stesse persone che ieri accusavano di antisemitismo il movimento Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds) oggi s’interrogano sulla ragionevolezza del boicottaggio degli artisti russi, un fatto piuttosto rivelatore.

Secondo varie organizzazioni internazionali il regime israeliano risponde alla definizione giuridica di apartheid. Israele è oggetto di una indagine della Corte penale internazionale per crimini di guerra commessi nei territori palestinesi. Nonostante tutto questo, nulla cambia. Dalla riva del Giordano al mar Mediterraneo, lo stato israeliano esercita il suo controllo in totale impunità senza preoccuparsi del diritto internazionale. Non c’è nulla che giustifichi la libertà di azione che gli è concessa. La libertà e la giustizia non si possono dividere. Altrimenti perderebbero il loro senso.

Per riprendere le parole di Fannie Lou Hammer, militante afroamericana per i diritti civili negli Stati Uniti: “Nessuno è libero finché non sono liberi tutti”. E con “tutti” s’intende anche i palestinesi. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1461 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati