20 novembre 2015 18:19

Gli attentati di Parigi del 13 novembre hanno riaperto il dibattito sul traffico illegale di armi in Europa e, in particolare, sul ruolo del Belgio. L’intervista di Mediapart a Cédric Poitevin, ricercatore belga e vicedirettore del gruppo di ricerca e d’informazione sulla sicurezza e la pace (Grip) che ha sede a Bruxelles.

Il Belgio è al centro del traffico illegale di armi in Europa?

In un certo senso sì, il Belgio ha un ruolo fondamentale. Ma dire che è il fulcro di questo traffico è un’esagerazione. Dal gennaio 2015 le questioni relative al traffico d’armi vengono esaminate solo in relazione agli attentati di Parigi (quelli di gennaio e quelli di novembre) oppure all’attentato del treno Thalys ad agosto. Ma questi terroristi hanno delle caratteristiche diverse dai protagonisti del traffico d’armi nell’Unione europea: sono perlopiù francofoni. Se altri terroristi avessero voluto prendere di mira Berlino o Vienna, per esempio, non sono sicuro che sarebbero passati dal Belgio.

Occorre affrontare il problema in una prospettiva europea e ricordare l’assenza di frontiere nello spazio Schengen. Fino a poco tempo fa, la lotta al traffico di armi non era considerata una priorità, contrariamente al traffico di esseri umani, di droga, di prodotti manifatturieri o di sigarette.

Questa scelta ha determinato un minore impiego di fondi e di personale nel contrasto al traffico di armi. È fondamentale capire quando un’arma è passata dal commercio legale a quello illegale. Tramite il numero di serie, è possibile risalire all’ultimo possessore legale e ricostruirne il percorso. Se venisse sistematizzato questo genere di ricerche su tutte le armi illegali ritrovate, si potrebbero individuare delle tendenze, dei canali e così via. Un simile lavoro in Europa non è stato fatto, perché non è stato considerato prioritario. Da qualche anno le cose stanno cambiando, ma serve tempo.

Le armi illegali che circolano in Belgio vengono soprattutto dai paesi dell’ex Jugoslavia? Quali sono le dimensioni del fenomeno?

Mancando studi sull’argomento, ci si può basare solo sulle testimonianze delle persone che lavorano sul campo. Dalla fine della guerra nella ex Jugoslavia i Balcani sono in effetti la principale origine delle armi illegali. Ogni volta che un conflitto finisce, le armi trovano nuovi mercati.

Vengono trasportate grazie a consegne di piccole o medie dimensioni, questo rende il contrasto del mercato illegale particolarmente difficile per i governi. Dopo la caduta del muro di Berlino, alcuni paesi dell’ex Unione Sovietica, ma soprattutto dei Balcani, disponevano di colossali arsenali d’armi. Anche in un paese minuscolo come l’Albania si trovava un numero di armi esagerato.

In un rapporto del 2014, la commissione europea parla di 67 milioni di armi illegali nell’Unione europea. Si tratta di una stima fondata?

Non so da dove traggano le loro statistiche. Nella comunità dei ricercatori c’è grande perplessità su questi numeri.

Il collasso della Libia ha aperto nuovi canali verso l’Europa del nord?

Alcune testimonianze lo confermerebbero, ma non ci sono prove. È un paese più lontano e dato che la rete che proviene dai Balcani è già ben stabilita, non capisco perché complicarsi la vita per aprire altre rotte. Esistono già altre fonti disponibili per chi vuole rifornirsi di armi da guerra, come il dirottamento o il furto di riserve controllate dagli stati, cioè dall’esercito o dalle forze di polizia. Senza statistiche, è difficile conoscere le dimensioni del fenomeno. La comunicazione tra i governi a questo riguardo è, comprensibilmente, scarsa. Di certo gli eserciti di Francia e Belgio non utilizzano kalashnikov.

Nel caso dell’attentato fallito del Thalys, si trattava di un fucile d’assalto Akm, apparentemente acquistato a Bruxelles e assemblato coi pezzi, prodotti in Germania, di un fucile modificato in modo che non possa sparare e poi riattivato. Il che spiega sicuramente perché il fucile si è inceppato al momento di sparare. Si tratta di un fenomeno diffuso?

Sì, in questo caso si tratta di un mercato totalmente distinto. Da un lato esiste la vendita legale di armi. Dall’altro c’è il mercato nero, illegale, alimentato perlopiù dai Balcani. E poi ci sono delle zone grigie, e alcuni individui sfruttano le differenze legislative tra i paesi europei, in particolare in materia di neutralizzazione, per procurarsi altre armi. In origine si è diffusa l’idea di “neutralizzare” le armi (cioè modificarle in modo che non possano più sparare), perché si pensava ad altri usi, per esempio alle collezioni, all’esposizione nei musei o alle riprese di film. Ma in paesi come la Slovacchia o la Germania, le norme relative alla neutralizzazione sono considerate meno severe che altrove. E, quindi, molto più facili da aggirare.

Come ha spiegato un’inchiesta di Mediapart, Amedy Coulibaly, uno degli autori degli attentati di gennaio, si è procurato uno dei fucili presso un “collezionista” belga, che si rifornisce a sua volta da un sito, con sede in Slovacchia, che vende pezzi neutralizzati. Cosa ne pensa?

In questo genere di faccende, uno degli elementi centrali è la responsabilità delle persone implicate. Rivendere delle armi neutralizzate è grave. Ed è probabile che chi acquista queste armi sia cosciente della facilità con cui è possibile riattivarle. In ogni caso si dovrebbe approvare una norma comune sulla neutralizzazione delle armi all’interno dell’Unione europea. La commissione ha avviato un processo del genere nel 2013 che però procede molto lentamente. Questi sforzi cominceranno a produrre risultati soltanto tra cinque o dieci anni, ed è logico che sia così. Fino a pochissimo tempo fa, la violenza legata all’uso delle armi da fuoco non era una preoccupazione prioritaria in Europa.

Un’altra peculiarità belga: la Vallonia possiede sul suo territorio una delle più grandi aziende esportatrici di armi d’Europa, la Fn Herstal. Questo spiegherebbe la nascita, in parallelo, di un mercato illegale?

In teoria le due cose non sono collegate. Si tratta di un’azienda che produce armi per usi civili e militari, quasi esclusivamente per l’esportazione, in particolare per il mercato civile americano e per gli eserciti “alleati” in Medio Oriente.

Quel che però accade in pratica è che la regione di Liegi, in Vallonia, un po’ come quella di Saint-Étienne in Francia, avendo sviluppato una grande tradizione nella produzione di armi, ha creato negli anni un tessuto industriale. A Liegi ci sono molti esperti in materia e in alcuni ambienti una vera e propria cultura delle armi.

Nel 2011, Nordine Amrani, l’autore della sparatoria avvenuta sulla piazza principale di Liegi, aveva assemblato un’arma a partire da pezzi e componenti che aveva recuperato da solo, dimostrando una certa competenza.Tra l’altro il pezzo principale proveniva da un Fal, un fucile d’assalto leggero simile al kalashnikov, prodotto in grandi quantità dalla Fn Herstal durante la guerra fredda e che aveva fatto parte delle riserve dell’esercito israeliano. In un certo periodo si era parlato anche di pensionati dell’Fn Herstal che, per arrotondare il loro stipendio, avrebbero assemblato e rivenduto alcuni pezzi di armi da fuoco a casa loro.

Qual è la durata media di utilizzo di un’arma da guerra?

Almeno cinquant’anni. Se la manutenzione è fatta male, si logora. Altrimenti può durare anche cent’anni. In Afghanistan, negli anni duemila, alcuni taliban usavano delle armi britanniche della prima guerra mondiale per combattere contro i soldati della Nato. Questo rivela un altro problema, spesso evidenziato dalle organizzazioni non governative, alcune aziende sono autorizzate a esportare armi verso zone sensibili perché i governi ritengono che il regime locale sia stabile. Ma è impossibile prevedere cosa accadrà nell’arco di dieci o cinquant’anni. E le armi possono cambiare proprietario molto rapidamente.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta su Mediapart. Clicca qui per vedere l’originale.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it