18 febbraio 2016 11:52

Nel 1986, il giovane Yoweri Museveni sostenne che i dirigenti politici che rimanevano in carica quando non erano più graditi erano una delle cause dei problemi dell’Africa. Con le elezioni del 18 febbraio l’ormai settantunenne Museveni cercherà di prolungare il suo trentennale regno da presidente ugandese e di essere rieletto per un quinto mandato consecutivo.

Nonostante la concorrenza di sette candidati e i numerosi problemi che affliggono attualmente il paese, tra cui il crollo dei redditi agricoli, l’alta disoccupazione giovanile e una corruzione endemica, è probabile che Museveni vinca di nuovo, anche se con un’affluenza ridotta e con margini più esigui rispetto al passato.

Il principale gruppo demografico dell’Uganda sono i giovani con meno di trent’anni, che rappresentano l’80 per cento della popolazione. La loro fiducia nella peculiare democrazia unipersonale di Museveni non è scontata. Gli osservatori ritengono che molti di loro potrebbero rinunciare a votare poiché la campagna elettorale – che come di consueto è stata costellata di intimidazioni, acquisto di voti su larga scale e clientelismo – è stata subito considerata non libera, né regolare.

Museveni è diventato, più che una soluzione, parte del più ampio problema che egli stesso aveva diagnosticato nel suo libro del 1986, What is Africa’s problem? (Qual è il problema dell’Africa?). Inoltre il suo cattivo esempio è contagioso. Nei vicini Burundi e Ruanda, è probabile che i leader in carica si aggrappino al potere, in assenza di una competizione democratica aperta e in scherno alla carta dell’Unione africana del 2007 su democrazia, elezioni e buon governo che tutti e tre i paesi hanno firmato.

Milizie contro l’opposizione

La polizia e le forze di sicurezza ugandesi reprimono il dibattito politico e il giornalismo indipendente, mentre cresce il timore di reazioni violente. Preoccupa in particolare una milizia filogovernativa composta da giovani e nota come Crime preventers, cioè addetti alla prevenzione del crimine. E sembra che anche i partiti d’opposizione stiano creando le proprie milizie.

“La crescita della violenza ci preoccupa”, ha dichiarato Kizza Besigye, storico esponente dell’opposizione e candidato con il Forum for democratic change. Besigye, che si è presentato alle ultime tre elezioni presidenziali, ha invitato il governo a “smettere di usare la polizia e gli altri apparati dello stato per intimidire, attaccare e arrestare i nostri sostenitori”.

Amama Mbabazi, un ex primo ministro che è stato uno dei collaboratori più intimi di Museveni all’interno del partito di governo, il National resistance movement (Nrm), e che oggi si presenta come indipendente, ha sostenuto che durante la campagna elettorale nove suoi sostenitori sono stati aggrediti, arrestati o uccisi. “Abbiamo assistito ad atti di violenza ovunque siamo stati. La polizia ha usato gas lacrimogeni e pallottole vere per bloccare i nostri raduni. Chiediamo al presidente Museveni di porre fine a queste azioni. Se non lo farà, la gente sarà costretta a ribellarsi e non sappiamo cosa succederà”, ha affermato.

Il governo attribuisce a sua volta la responsabilità dei disordini all’opposizione. Il primo ministro ugandese, Ruhakana Rugunda, ha dichiarato: “Abbiamo ricevuto rapporti che riferiscono che un piccolo gruppo dell’opposizione radicale sta eseguendo e pianificando azioni violente”.

Gli affanni elettorali dell’Uganda stanno nuovamente portando l’attenzione verso il presunto deficit democratico dell’Africa

Secondo un rapporto di Human rights watch l’intimidazione del governo nei confronti di giornalisti e stampa, e di conseguenza l’auto-censura, sono dilaganti. “Come si può pensare che le elezioni in Uganda siano regolari se la stampa e i gruppi indipendenti non possono criticare il partito al potere o i dirigenti di governo senza paura?”, si chiede. Il rapporto riferisce anche di come i rappresentanti dell’Nrm abbiano offerto “denaro, viaggi e corsi di formazione in cambio di una copertura stampa favorevole nei confronti del partito al potere”. Nel documento si afferma anche che le stazioni radio, la principale fonte d’informazione per la maggioranza di elettori analfabeti nelle aree rurali, stanno subendo una grande pressione per uniformarsi alla linea del governo.

Gli affanni elettorali dell’Uganda stanno nuovamente portando l’attenzione verso il presunto deficit democratico dell’Africa. In Burundi l’insistenza di Pierre Nkurunziza nell’ottenere un terzo mandato nonostante la contrarietà dell’opinione pubblica e del contenuto della costituzione ha provocato scontri nelle strade ed esodi di massa. In Ruanda Paul Kagame, al potere dal 1994, ha annunciato che l’anno prossimo si candiderà per un terzo mandato.

Kagame e Nkurunziza rappresentano una nuova generazione di leader che commettono gli stessi soprusi contro la democrazia inaugurati dagli uomini forti dell’Africa postcoloniale. Come José Eduardo Dos Santos in Angola (rimasto al potere 37 anni), Robert Mugabe in Zimbabwe (36 anni), Paul Biya in Camerun (34 anni) e Muammar Gheddafi in Libia (42 anni).

Come questi altri veterani, Museveni si presenta come uno statista di grande esperienza, l’unico in grado di garantire la sicurezza del paese. “Quanti chiedono a gran voce che me ne vada, devono sapere che questo non è il momento giusto”, ha dichiarato in un comizio. “Quest’anziano uomo ha salvato il paese, come potete desiderare che se ne vada? Come posso andarmene da una piantagione di banane che ho creato io e che solo ora ha cominciato a dare frutti?”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it