19 febbraio 2016 17:27

Povero Sergio Parisse. Quando il gigante italiano si ritirerà sarà un ovvio candidato alla Hall of fame del rugby: è considerato quasi all’unanimità uno dei migliori numeri otto di tutti i tempi e per due volte è stato in lizza per il premio di miglior giocatore World rugby dell’anno. Ma pur essendo un talento unico, che unisce la potenza del grande avanti, l’abilità nel controllo di palla del centro e il passo maestoso dell’ala, ha la sfortuna di giocare per l’Italia.

Da quando 16 anni fa sono stati ammessi al Tier 1 e al Sei nazioni, l’annuale competizione a girone unico tra le migliori nazionali d’Europa, gli “Azzurri” hanno ottenuto risultati sconfortanti. Hanno vinto appena dodici partite su 81, prendendo per dieci volte il cucchiaio di legno, il titolo riservato a chi perde tutte le partite del torneo.

Probabilmente, nel 2016 alla loro non invidiabile collezione se ne aggiungerà un altro: all’inizio dell’edizione di quest’anno, RugbyVision, un modello predittivo per le manifestazioni e i tornei, ha dato a Parisse e compagni l’84 per cento di probabilità di finire all’ultimo posto. Le cose non sono andate meglio sui palcoscenici internazionali più grandi. L’Italia non ha mai superato il primo turno ai mondiali, ed è al dodicesimo posto dell’ultima classifica mondiale di RugbyVision, dietro le Fiji e Samoa, entrambe nazionali di Tier 2 che non partecipano a manifestazioni internazionali.

Un decennio e mezzo dopo essere passata da nazione emergente a squadra capace di confrontarsi con i giganti, l’Italia è ancora considerata un pesce piccolo. Nel weekend di apertura del Sei nazioni ha sfiorato la vittoria contro una distratta Francia (la vittoria degli Azzurri era quotata 9-1) ma come spesso è accaduto in passato, alla fine non ce l’ha fatta e ha perso 23 a 21. L’ultima azione è stata simbolica: Parisse, il cui compito dovrebbe essere guidare gli avanti, si è preso la responsabilità del calcio della possibile vittoria al posto di uno dei tre quarti. Ha sbagliato. Anche una leggenda del gioco può trascinare una squadra debole fino a un certo punto.

Un popolo di atleti

Le continue prestazioni deludenti degli Azzurri sono difficili da spiegare. A prima vista l’Italia ha tutte le carte in regola per emergere. La prima è che generalmente gli italiani riescono bene negli sport. Il Global sports index, una classifica stilata dalla società di market intelligence Sportcal, calcola che l’Italia è attualmente al nono posto tra le nazioni più atletiche del mondo sulla base di 140 diverse discipline.

Gli italiani hanno il vantaggio di essere sia numerosi (sono sessanta milioni) sia ricchi (con un reddito medio di 35mila dollari pro capite), due fattori molto importanti ai fini del successo agonistico. Un rapporto pubblicato nel 2008 da Spliss, una società di ricerca che analizza i fattori che determinano il successo nello sport al livello internazionale, rivela che il 34 per cento della varianza nei risultati sportivi tra un paese e l’altro può essere attribuito al numero di abitanti, mentre un altro 17 per cento è dovuto al pil pro capite. In parole povere, questi fattori socioeconomici “di background” spiegano per un buona metà la differenza tra le capacità sportive di un paese rispetto all’altro.

In base a questi indicatori, gli italiani dovrebbero già portare a casa un bel bottino di medaglie e trofei: il loro paese, infatti, è nei primi trenta sia per popolazione sia per pil pro capite. Ma anche tenendo conto di questi vantaggi l’Italia supera le aspettative, eccellendo nel calcio (come è noto), ma anche nello sci, nel nuoto, nel ciclismo, nella pallavolo, nel tennis e nella pallanuoto. E infatti, Spliss considera l’Italia un’eccezione tra i paesi europei di dimensioni simili, perché supera ampiamente le proiezioni e perché solo una piccola parte del suo successo è legata a fattori socioeconomici. Spliss, al contrario, esalta l’Italia come un ottimo esempio di strategia di sviluppo nello sport. Il paese eccelle nel controllo della fascia di variabili “meso” (cioè le politiche sportive) che stanno a metà tra le “macro” (popolazione, pil) e le “micro” (singoli atleti e allenatori).

Anthony Watson e Leonardo Sarto durante la partita Italia-Inghilterra allo stadio Olimpico di Roma, il 14 febbraio 2016. (Paul Childs, Reuters/Contrasto)

I dati indicano che almeno una parte di questa capacità strategica è stata trasferita nel rugby italiano. La partecipazione, uno dei “pilastri” di una politica sportiva efficace secondo Spliss, è alta: l’Italia ha 82mila praticanti, più della Scozia e del Galles e 25mila in più dell’Argentina, che è arrivata in semifinale ai mondiali sia nel 2007 sia nel 2015.

Ovviamente, avere più praticanti al livello dilettantistico non è una garanzia di successo. Sia il Giappone sia gli Stati Uniti hanno più praticanti dell’Irlanda, candidata alla terza vittoria consecutiva nel Sei nazioni. Spliss, tuttavia, evidenzia una “significativa correlazione tra partecipazione di massa e medaglie vinte alle Olimpiadi”. Poter contare su un pool di talento ricco e su un ricambio costante favorisce la continuità nelle vittorie. Negli annali dello sport internazionali si ricordano tante meteore, come la nazionale keniana di cricket che nel 2003 arrivò in semifinale ai mondiali con un pool di soli cinquemila giocatori, o i Tall Blacks della Nuova Zelanda classificati al quarto posto ai mondiali di pallacanestro del 2002 nonostante il basket non fosse nemmeno tra i 20 sport più popolari del paese. Questo è un ostacolo che il rugby italiano ha superato.

La Federazione italiana rugby (Fir), in realtà, è stata abbastanza brava a mettere in piedi quasi tutti i “pilastri” strategici di Spliss. Per esempio, la disponibilità di strutture di allenamento è fondamentale, ed è uno dei motivi per i quali il calcio è diventato un gioco globale realmente competitivo (per giocare servono solo quattro segni per i pali e un pallone), mentre l’hockey su ghiaccio è ancora dominato dalle big six: Canada, Stati Uniti, Finlandia, Russia, Svezia e Repubblica Ceca, che insieme hanno rastrellato tutte le medaglie olimpiche degli ultimi 40 anni. Da questo punto di vista all’Italia non si può rimproverare nulla: stando agli ultimi dati disponibili (2011) l’Italia ha più società di rugby dell’Australia e della Nuova Zelanda, e può contare su nove accademie oltre al centro federale di Parma.

I giocatori che entrano a far parte del sistema hanno molte opportunità di andare a giocare per un club e per la nazionale e “di misurarsi con gli avversari, al livello individuale e di squadra” – altro ingrediente importante per il successo, secondo Spliss. Dal 2010 due squadre italiane partecipano al Pro12, la competizione annuale che coinvolge squadre irlandesi, gallesi e scozzesi, e pur faticando a stare al passo dei club più forti d’Europa ogni settimana hanno l’opportunità di confrontarsi con alcuni dei migliori giocatori del mondo. La nazionale italiana che ha partecipato ai mondiali del 2015 avrebbe potuto schierare una squadra composta interamente da giocatori con esperienza nel campionato inglese e in quello francese, i migliori dell’emisfero nord. Molti connazionali di Parisse, anche se magari non al suo livello, sono andati all’estero a giocare nei top club.

E poi naturalmente c’è il Sei nazioni, che ogni anno vede l’Italia confrontarsi con alcuni degli avversari più forti al livello internazionale. Un privilegio simile sarebbe un sogno per molte squadre emergenti. Nel rugby union (a 15) sia i paesi europei emergenti (Georgia e Romania) sia quelli delle isole del Pacifico (Fiji, Samoa e Tonga) si lamentano da tempo di essere esclusi dalle competizioni internazionali contro le squadre più forti.

Nel cricket, l’Irlanda, a lungo considerata una delle migliori nazionali al di fuori dei paesi Test (cioè le squadre considerate più forti), negli ultimi cinque anni, tra i mondiali del 2011 e quelli del 2015, ha disputato solo nove partite con la formula One day international contro squadre del Test. Nel rugby league (a 13) nessun paese emergente ha partecipato più di una volta al Quattro nazioni, subendo regolarmente batoste da Australia, Inghilterra e Nuova Zelanda. A parte il calcio, forse lo sport che è riuscito meglio a integrare i paesi emergenti è la pallacanestro. Negli ultimi anni il basket è cresciuto molto in paesi come Francia, Spagna e Turchia, anche grazie a una presenza costante alle Olimpiadi dal 1936 in poi e al continuo allargamento della partecipazione ai mondiali, che nel 2019 saranno a 32 squadre.

È possibile che gli insuccessi dell’Italia dipendano dalla direzione tecnica, un altro dei fattori evidenziati da Spliss? Non al livello di squadra nazionale: gli ultimi quattro allenatori della nazionale sono stati un ex giocatore campione del mondo (sir John Kirwan), un ex commissario tecnico della Francia (Pierre Berbizier), un ex commissario tecnico del Sudafrica (Nick Mallett) e adesso Jacques Brunel, ex assistente del commissario tecnico francese.

Ci sono molte analogie con la nazionale di cricket dello Sri Lanka, che dal 1982, dopo aver ricevuto il Test status, ha avuto una serie di allenatori di primo piano, molti dei quali provenienti dalle migliori squadre del mondo. Una strategia di questo tipo spesso prevede il coinvolgimento di un ex giocatore di forte carisma in un ruolo dirigenziale: così hanno fatto la nazionale di rugby argentina con il leggendario mediano di mischia Agustin Pichot e la nazionale di pallacanestro greca con l’ex capitano Panagiotis Yannakis, che nel 2006, da allenatore, ha guidato il suo paese alla finale dei mondiali. Lo Sri Lanka, l’Argentina e la Grecia hanno avuto ripetuti successi nei rispettivi sport: gli Azzurri invece no.

Missione giovani

Con tanti elementi a loro favore, sembra quasi impossibile che Parisse e compagni non riescano a competere ad alti livelli. Ma nonostante la partecipazione, le strutture, le opportunità e le competenze tecniche al livello nazionale, c’è un elemento che è stato trascurato: la crescita dei giovani. L’Italia produce discreti rugbisti, come indica il numero di atleti tesserati dai top club, ma non abbastanza giocatori di talento. La Fir ha introdotto il “progetto statura”, che si concentra sulla crescita dei giocatori più alti e pesanti nella speranza che riescano a competere con avversari internazionali sempre più prestanti.

Inoltre, molti osservatori in Italia sono convinti che gli allenatori delle squadre giovanili siano di un livello inferiore rispetto a quelli dei paesi più forti: secondo Paolo Pacitti, giornalista della Rai esperto di rugby, la qualità degli allenamenti è bassa rispetto all’Argentina, e la crescita dei giocatori al sud è molto trascurata. Tutto questo è lo specchio di problemi amministrativi più profondi: “Il mondo del rugby italiano non è particolarmente lungimirante”, dice Rob Kitson, che scrive di rugby sul Guardian.

La mancanza di talento, frutto di una politica di formazione dei giovani relativamente inefficace e di un’amministrazione poco illuminata, è l’unica spiegazione convincente per i continui insuccessi dell’Italia.

Il problema è particolarmente sentito nel ruolo di mediano di apertura, il giocatore che prende gran parte delle decisioni in attacco e che di solito batte i calci da fermo. Negli ultimi cinque anni sei giocatori si sono alternati nel ruolo in nazionale, e solo due di loro hanno imparato a giocare a rugby in Italia. Questi giocatori con la maglia numero dieci magari erano alti – in media appena sotto il metro e ottantadue – ma erano anche dei pessimi calciatori. E infatti negli ultimi cinque anni l’Italia ha avuto i peggiori calciatori fra tutte le principali nazionali, comprese le modeste Fiji, Tonga e Samoa.

I dati raccolti da Goalkickers, che misurano i calci da fermo e li valutano in base alla difficoltà, mostrano che l’Italia ha trasformato soltanto il 63 per cento dei tentativi. Tutte le altre nazionali del Tier 1, tranne l’Argentina, li convertono almeno il 72 per cento delle volte, ed è un problema serio, specialmente in uno sport dove quasi metà dei punti vengono dai calci.

Dopo l’errore nel calcio di rimbalzo finale contro la Francia, i compagni di squadra di Parisse hanno detto che il capitano spesso li prova in allenamento; i tifosi hanno aggiunto che Parisse ha segnato di calcio sia nel suo club sia in nazionale, unico avanti a riuscirci nell’era del professionismo. Se le squadre italiane di rugby sperano un giorno di competere ad altri livelli devono cercare di creare giocatori altrettanto talentuosi. E dai piedi buoni.

(Traduzione di Fabrizio Saulini)

Quest’articolo è stato pubblicato dal settimanale britannico The Economist.

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