08 aprile 2016 13:08

Riuscireste a sopravvivere in prigione per sessanta giorni? E nello specifico, riuscireste a sopravvivere per sessanta giorni nella sovraffollata prigione della contea di Clark, in Indiana, che ospita 500 detenuti annoiati, nevrotici e spesso pericolosi? Queste sono le premesse di una nuova serie intitolata 60 days in.

Guardando la trasmissione scopriamo che è vero quando si dice che l’inferno sono gli altri, soprattutto quando si è costretti a stare ammassati in un blocco con cinquanta detenuti in custodia cautelare e a dormire in quattro in una cella. Robert, il personaggio narcisista e comico tra i sette detenuti volontari, pensa che la prigione sarà come una vacanza in campeggio. “Non voglio che sia troppo facile”, dice. Un altro partecipante, l’agente di polizia Tami, ha paura di dover subire un brusco risveglio.

L’idea di spedire dei volontari nel carcere della contea, in cui sono rinchiusi i prigionieri in attesa di giudizio, era un sogno dello sceriffo del posto, Jamey Noel. Negli Stati Uniti quella di sceriffo è una carica politica, e Noel è un repubblicano fino al midollo, strenuo difensore del diritto a possedere delle armi. Ha vinto le elezioni nel 2014 (il fatto che il suo predecessore democratico fosse stato arrestato con l’accusa di aver avuto rapporti con una prostituta ha aiutato molto la causa repubblicana) e ha promesso di ripulire questa prigione “piena di droga”.

“Sapevo già che c’erano gravi problemi”, commenta Noel, “ma mentre ero in campagna elettorale per la carica di sceriffo c’erano dei genitori che mi chiamavano per dirmi ‘se verrà eletto dovrà fare qualcosa. Mio figlio è in carcere. Pensavo che avrebbe ricevuto un po’ di aiuto, o quanto meno che sarebbe stato al sicuro, ma le cose sono peggiorate’. Sapevo che dovevamo fare qualcosa”.

Zac, l’ex marine.

Sette volontari

La sua idea iniziale era di introdurre dei poliziotti sotto copertura per sradicare il problema della droga, ma non è riuscito a trovare agenti sconosciuti ai detenuti e, comunque gli agenti non avevano molta voglia di farsi un periodo dietro le sbarre. “Erano disposti a farlo per un fine settimana”, racconta Noel, “ma non di più”.

Poi l’idea di Noel ha cominciato a circolare, la compagnia di produzione Lucky 8 ne è venuta a conoscenza e insieme hanno elaborato il progetto di mettere dentro persone innocenti. I partecipanti sono molto diversi tra loro: oltre a Robert, che è un insegnante, e all’agente di polizia Tami, ci sono Zac, un ex marine di poche parole, il mansueto Jeff, una guardia giurata, un giovane nero di nome Isaiah che nella vita reale ha un fratello in carcere, Barbra, la giovane moglie di un soldato e madre di due bambini e, rullo di tamburi, Maryum Ali, un’assistente sociale di 47 anni che è anche la figlia maggiore della leggenda della boxe Muhammad Ali. Muhammad Ali è nato a Louisville, sull’altra sponda del fiume Ohio, in Kentucky (il fiume segna il confine tra i due stati), a pochi chilometri dalla prigione della contea di Clark.

Ovviamente bisognava evitare che l’installazione delle telecamere – ai detenuti è stato detto che il programma aveva l’obiettivo di riprendere l’esperienza dei non recidivi – trasformasse l’intera operazione in una finzione e modificasse il comportamento dei detenuti. “È stata un’esperienza davvero realistica”, ribadisce Noel, “perché gli unici a sapere che si trattava di volontari sotto copertura eravamo io, un altro addetto dell’ufficio dello sceriffo e la produzione. Neanche le guardie carcerarie ne sapevano niente”.

Film e trasmissioni televisive sulla vita in carcere esercitano un fascino macabro sul pubblico

Noel racconta che i volontari hanno ricevuto un addestramento, ma che in seguito sono stati trattati come detenuti comuni. “In ballo c’è la mia carriera”, ha spiegato in occasione della prima puntata. “Dio non voglia che a uno di questi partecipanti capiti qualcosa di male”. Non svela un gran che sui loro compensi, ma nelle anticipazioni si vede Tami con un occhio nero e l’impertinente e irritante Robert in cella di isolamento.

Pare inoltre che uno dei partecipanti non ce l’abbia fatta a restare dentro per sessanta giorni, ma i produttori glissano. “Alcuni hanno seguito l’addestramento e si sono comportati come detenuti navigati”, dice Noel. “Altri non l’hanno fatto, e le cose non sono andate bene”. Film e trasmissioni televisive sulla vita in carcere sembrano esercitare un fascino macabro sul pubblico, soprattutto negli Stati Uniti, ma Noel continua a ribadire che 60 days in non è solo intrattenimento. “Spero che questo programma richiami l’attenzione sugli istituti di pena”.

Lo sceriffo Noel.

Le statistiche sulle carceri e le prigioni federali negli Stati Uniti – queste ultime ospitano pregiudicati e detenuti condannati a pene lunghe – sono sconvolgenti. Più di 2,5 milioni di persone sono dietro le sbarre; 13 milioni di persone transitano ogni anno nel sistema carcerario; droghe, gang e attività criminali sono diffusissime; i tassi di recidiva sono altissimi. È il ritratto di un fallimento del sistema penale che dovrebbe far vergognare un paese in via di sviluppo.

La conclusione più scontata dopo la visione di 60 days in è che la prigione della contea di Clark è un luogo sciagurato: i detenuti possono fare più o meno quello che vogliono; il vero controllo lo esercitano i “boss” del blocco; le guardie carcerarie intervengono solo quando qualcuno viene minacciato fisicamente. Non ci sono neppure letti a sufficienza per tutti i detenuti, e alcuni dormono su materassi per terra nelle aree comuni; non ci sono attività lavorative organizzate e poche opportunità di svago.

Un sistema da cambiare

Il regime non è malvagio di per sé, ma cronicamente privo di fondi e inefficace, tipico di un paese che non offre reti di sicurezza per le persone più vulnerabili e marginalizzate. C’è da chiedersi se in un paese con tanti senza tetto, l’obiettivo non sia quello di evitare di rendere la prigione un’alternativa troppo attraente. Robert era convinto che quest’esperienza sarebbe stata simile a una vacanza in campeggio, ma la sua idea era lontana anni luce dalla realtà: l’esperienza è un misto di noia, anarchia e ogni tanto minaccia: sessanta giorni saranno sembrati un ergastolo.

Ho scritto un’email a Barbra per chiederle come se la fosse cavata. “Ho sopportato quest’esperienza meglio di quanto pensassi”, dice. “Nel corso dei sessanta giorni mi sono annoiata molto più spesso di quanto avrei immaginato, e mi è mancata molto la mia famiglia. Tuttavia sono riuscita a sviluppare dei legami di amicizia con diverse detenute, e questo mi ha aiutato a trascorrere il tempo”.

Secondo lei il regime carcerario dovrebbe cambiare, e i detenuti dovrebbero avere l’opportunità di fare qualcosa di creativo mentre stanno in carcere, con “programmi di riabilitazione”, così che “possano imparare a migliorarsi e a riprendersi dagli errori che li hanno fatti finire in carcere”. Quando è entrata, Barbra era una di quelle persone convinte che i prigionieri sono trattati troppo bene e si lamentava che mentre loro hanno tre pasti al giorno, suo marito rischiava la vita al fronte per dar da mangiare alla sua famiglia. Il cambiamento di prospettiva è stato significativo.

Mettere in carcere i tossicodipendenti invece di curarli è una follia

È difficile però che gli Stati Uniti in generale compiano questo cambiamento. Lo sceriffo Noel, per esempio, non è d’accordo con l’idea che ci sono troppe persone nei penitenziari statunitensi, ma ammette che mettere in carcere i tossicodipendenti invece di curarli è una follia. Secondo lui dovrebbe esserci un’attenzione maggiore sulla riabilitazione e bisognerebbe rendere meno accessibili le droghe. Al momento di assumere l’incarico, racconta, la gente voleva venire nella contea di Clark perché le droghe costavano meno ed era più facile farle entrare. Tuttavia, regole migliori e regimi carcerari costruttivi hanno dei costi e il bilancio della prigione è ridotto. Anche il percorso di Noel sarà lungo e difficile.

Detenuti della prigione della contea di Clark.

La serie è già in onda negli Stati Uniti e secondo Brad Holman, uno dei produttori del canale A&E che l’ha commissionata, è stata un vero successo. “I dati vanno ben oltre le nostre aspettative”. È stata realizzata una seconda serie con altri otto partecipanti, e lo sceriffo adesso sta mettendo in pratica quello che ha imparato. In particolare, Noel afferma di avere un’idea più chiara di come funzionino i rapporti di potere nelle capsule – per esempio, il corridoio di accesso al bagno è utilizzato come uno strumento di controllo – e di quanto diventino stanchi e irritabili i prigionieri per mancanza di sonno e assenza di attività strutturate durante il giorno. Queste lezioni di comportamento secondo lui non sarebbero state possibili senza volontari.

Ci sarà chi sosterrà che tutto questo è finzione e non un documento sociale, ma Holman si difende. “Facciamo delle trasmissioni di intrattenimento con una finalità sociale”, dice, “e vogliamo che la gente guardi questo programma perché racchiude un messaggio potente. Non è un semplice reality show”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

Il reality andrà in onda in Italia dal 27 aprile su Crime+Investigation con il titolo I miei sessanta giorni all’inferno.

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