07 settembre 2016 16:46

Nel Jammu e Kahsmir, l’unico stato indiano a maggioranza musulmana, le proteste si sono riaccese da quasi due mesi. Giovani uomini kashmiri sono scesi in piazza per reclamare l’indipendenza dall’India, lanciando pietre contro le forze di sicurezza, che hanno risposto con gas lacrimogeni e fucili caricati con pallottole di piccolo calibro invece che a pallettoni.

Nella valle del Kashmir è stato inoltre imposto un rigido coprifuoco (terminato alla fine di agosto), che ha riguardato anche Srinagar, la principale città della regione. Nel corso degli scontri sono stati uccisi 66 civili e due poliziotti. Ma perché stanno protestando i kashmiri?

La regione è contesa fin dai tempi della divisione dell’India e del Pakistan nel 1947. Entrambe le parti reclamano il territorio, per il quale hanno combattuto tre diverse guerre. Il Kashmir è sottoposto all’India’s armed forces (special powers) Act (la legge sui poteri straordinari delle forze armate indiane), che attribuisce poteri speciali all’esercito, fin dall’esplosione, nel 1990, di una rivolta armata, segretamente sostenuta dal Pakistan. Da allora sono state uccise circa quarantamila persone. Anche nell’ultimo, e relativamente pacifico, decennio, non sono mancati i momenti di rivolta, in particolare nelle estati del 2008 e del 2010.

Una fedeltà ambigua
Le attuali proteste sono cominciate il 9 luglio dopo che le forze di sicurezza indiane hanno ucciso Burhan Wani, un giovane e carismatico militante islamista. Il malcontento stava crescendo da mesi. Quando, nel 2014, è salito al potere il partito nazionalista indù Bharatiya janata party (Bjp) di Narendra Modi, i kashmiri hanno cominciato a temere che il suo governo nazionale avrebbe reso più difficile la vita dei musulmani. Nel corso delle elezioni statali dello stesso anno, il locale Partito democratico del popolo ha formato una coalizione con il Bjp, provocando la loro frustrazione. L’uccisione di Wani ha così mobilitato una generazione cresciuta sotto quella che è percepita come un’illegittima occupazione indiana.

Wani era un ribelle locale, cresciuto in Kashmir, come lo sono i manifestanti scesi nelle strade

Il risultato sono state sette settimane di violenza e atti di rappresaglia da parte della polizia e delle forze paramilitari. I loro pallettoni, teoricamente non letali, hanno accecato decine di persone, ferendone centinaia. Negozi e attività commerciali sono rimasti chiusi dall’inizio delle proteste, o per rispettare il coprifuoco o per rispondere agli appelli allo sciopero dei leader separatisti.

Molti kashmiri non sono mai usciti di casa nelle ultime settimane. In pochi si aspettano che la situazione migliori in tempi brevi, nonostante siano arrivate parole rassicuranti da parte di Modi e il ministro dell’interno abbia visitato la regione.

L’India osserva il Kashmir attraverso il prisma della sua rivalità con il Pakistan e questo ostacola ogni tentativo di trovare una soluzione duratura. La reazione immediata del governo indiano ai disordini di quest’estate è stata quella di accusare il paese vicino d’intromissione. In realtà Wani era un ribelle locale, cresciuto in Kashmir, come locali sono i manifestanti che si riversano nelle strade.

La disoccupazione è diffusa e le opportunità economiche sono scarse. Al Jammu e Kashmir è stato inoltre promesso uno statuto speciale, che gli garantirebbe autonomia, nella costituzione indiana. Ma molti kashmiri adesso vogliono di più: un sondaggio effettuato nel 2010 dal centro studi Chatham House ha rilevato una schiacciante preferenza per l’indipendenza. I kashmiri conservano un atteggiamento quantomeno ambiguo rispetto alla loro fedeltà all’India. E se il governo non riconoscerà le loro richieste, è improbabile che la loro rabbia diminuisca.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo di L.M. è stato pubblicato dal settimanale britannico The Economist.

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