23 luglio 2018 12:00

Due bambine con i capelli intrecciati dormono alle estremità del letto. Indossano entrambe un vestito rosa bordato d’oro. Sarebbe una visione che allieta il cuore, se non fosse per le bende bianche strette intorno alle loro braccia e gambe. La corsia dell’ospedale trabocca di pazienti, con i monconi arrotondati degli arti puntati verso il soffitto. Vicino alla porta sono appese targhette di colori diversi per indicare il grado di gravità: rosso per i casi più urgenti, nero per chi è ormai senza speranza. Sono la prova della lugubre efficienza dei chirurghi del Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr), acquisita affrontando l’incessante arrivo di vittime di bombe e armi da fuoco. La loro clinica è forse l’unica cosa che funziona bene a Maiduguri.

La principale città della Nigeria nordorientale è il centro di una serie di campagne di conquista che i jihadisti stanno conducendo in due ampie fasce di territorio alle estremità del Sahara. L’offensiva settentrionale arriva fino al Mediterraneo, copre l’Egitto, la Libia, la Tunisia e l’Algeria. Quella meridionale parte dalla Somalia e dal Kenya a est, attraversa la Nigeria e il Niger e raggiunge il Mali, il Burkina Faso e il Senegal a ovest. Per capire quanto siano lontani tra loro i campi di battaglia bisogna considerare che Dakar in Senegal si trova alla stessa distanza da Miami, in Florida, e da Mogadiscio, in Somalia.

Di questo conflitto si parla molto poco, anche se nel 2017 ha fatto più di diecimila vittime, quasi tutte civili. Comprende anche la battaglia contro quello che secondo il generale Mark Hicks, il comandante delle forze speciali americane in Africa, è forse “il più grande gruppo” di combattenti del gruppo Stato islamico (Is) al di fuori dell’Iraq e della Siria. Per questa guerra sono arrivate truppe dagli Stati Uniti, dalla Francia, dal Regno Unito e dalla Germania, e adesso sta attirando anche quel che resta dell’Is.

Separare gli estremisti
La cosa preoccupante è che a quanto pare i jihadisti stanno vincendo. Il generale Bruno Gubert, che nella regione comanda l’operazione antiterrorismo francese Barkhane, e ha ai suoi ordini 4.500 soldati, sostiene che l’operazione sta avendo un notevole successo. “Non posso dire che la situazione stia peggiorando, in un certo senso sta migliorando”. Ma le statistiche raccontano un’altra storia: in Africa dal 2010 al 2017 il numero di scontri nei quali sono stati coinvolti gruppi jihadisti è aumentato di più del 300 per cento. Nello stesso periodo, secondo il Centro di studi strategici per l’Africa, che fa parte del dipartimento della difesa americano, il numero dei paesi africani impegnati in attività militari è più che raddoppiato, arrivando a 12. Molti ufficiali occidentali sono scoraggiati. “Se non ci mandano altre truppe, perderemo sicuramente”, dice un alto ufficiale francese.

Dei vari gruppi jihadisti, molti sono fedeli ad Al Qaeda o all’Is. Tra questi ci sono Al shabab in Somalia, Boko haram e le sue fazioni in Nigeria e Jama’at nusrat al islam wal muslimin in Mali. In ogni paese il confitto è alimentato in buona parte da risentimenti locali, ma i gruppi ribelli hanno tutti dei tratti in comune. Alcuni sono stati rafforzati dalla disgregazione della Libia dopo la caduta del regime di Muammar Gheddafi nel 2011, quando le armi hanno cominciato a uscire dagli arsenali libici e nel Sahara sono nate reti di contrabbando di qualsiasi cosa, dalle persone alla droga. Sembra che i jihadisti stiano imparando gli uni dagli altri e ottenendo denaro e sostegno dai gruppi militanti del Medio Oriente. Il presidente francese Emmanuel Macron ha detto: “Il problema è soprattutto impedire che si uniscano”.

La battaglia più importante è quella contro Boko haram in Nigeria. Con un territorio grande come la Francia e la Germania messe insieme, la Nigeria è il paese più popoloso del continente (con forse 180 milioni di abitanti) e la sua principale economia. Se uno stato con queste risorse non è in grado di contenere il virus jihadista, che speranza hanno i paesi africani più poveri e meno capaci? Un generale a riposo che in passato ha ricoperto un’alta carica dell’Africom, il comando militare statunitense in Africa, afferma: “Se la Nigeria cadesse nelle loro mani, si aprirebbe una voragine che risucchierebbe sei o sette altri stati”. Senza contare che le sue difficoltà costituiscono un monito per molti altri paesi africani e i loro alleati occidentali.

Le convinzioni e l’ascesa di Boko haram
Il governo nigeriano insiste nel sostenere che la guerra è già stata vinta. “Boko haram è stato sconfitto”, dice il generale Tukur Buratai. Ma le sue rassicurazioni non convincono gli abitanti del villaggio di Kiribiri, a una ventina di chilometri da Maiduguri, dove il confine del territorio controllato dal governo è segnato da un basso fossato. Un poliziotto indica la savana dall’altra parte. “Lì nessuno è al sicuro. C’è Boko haram”.

Boko haram, che con le sue fazioni costituisce l’organizzazione terroristica più pericolosa al mondo, è nata proprio a Maiduguri. È così violenta da disgustare perfino Al Qaeda e l’Is. È stata fondata dai seguaci di Mohammed Yusuf, un predicatore islamico molto carismatico che nel 2002 aveva istituito una scuola religiosa e una moschea a Maiduguri. “Era molto convincente”, dice un uomo che assisteva ai suoi sermoni come informatore della polizia. “Ero d’accordo con tutto quello che diceva”.

Yusuf esortava i suoi seguaci a rifiutare lo stato (perché era creato dall’uomo e non da Dio) e “ogni tipo di conoscenza che contraddice l’islam”, compresi il concetto della Terra rotonda e dell’evaporazione che causa la pioggia. Anche se negli stati settentrionali della Nigeria è stata imposta da tempo la sharia, o legge islamica, secondo Yusuf era interpretata in modo non abbastanza rigido. Tra le altre cose, chiedeva la chiusura delle scuole laiche (nella lingua hausa, che appartiene al gruppo afroasiatico, il nome dell’organizzazione, Boko haram, significa “l’educazione occidentale è peccato”).

Un’ambulanza porta via i feriti dopo un attentato suicida a Maiduguri, Nigeria, il 28 maggio 2018. (Audu Marte, Afp)

Nel 2009, gli uomini di Yusuf avevano cominciato ad attaccare soldati e poliziotti e a uccidere i religiosi che non erano d’accordo con la sua interpretazione dell’islam. La polizia nigeriana lo arrestò e lo uccise in presenza della folla davanti al suo quartier generale di Maiduguri (le autorità insistono nel sostenere di avergli sparato perché tentava di fuggire). I seguaci di Yusuf si diedero alla macchia fino a quando non uscirono di nuovo allo scoperto sotto il comando di Abubakar Shekau. Nel 2011 fecero saltare in aria il quartier generale della polizia e un edificio delle Nazioni Unite nella capitale Abuja. Alla fine del 2014 si erano già impadroniti di buona parte dei tre stati della Nigeria nordorientale, erano noti a tutto il mondo per aver rapito 300 studentesse a Chibok e si stavano facendo strada verso Maiduguri. L’esercito nigeriano, indebolito dalla corruzione, era allo sbando. Le sue unità erano piene di soldati fantasma la cui paga era intascata dai comandanti. Un ufficiale occidentale ricorda che una compagnia che avrebbe dovuto essere formata da 100-150 soldati era costituita solo da una ventina di uomini.

Diversamente dall’Is in Siria e in Iraq, che ha istituito un’amministrazione civile per governare l’autoproclamato califfato, all’inizio Boko Haram non ha cercato di governare. Preferiva il caos. Bombardava moschee e mercati, massacrava gli abitanti dei villaggi e rapiva donne e bambini. Alcune ragazze sono state vendute come schiave, altre costrette a diventare bombe umane. Uno studio condotto dal Centro per la lotta al terrorismo dell’accademia militare statunitense di West Point ha rivelato che le donne erano più di metà delle 434 persone usate dal gruppo come bombe umane tra l’aprile del 2011 e il giugno del 2017. A detta dell’Unicef, il fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia, l’anno scorso Boko Haram ha attaccato bombe a 135 bambini.

Situazione stagnante
Questa violenza sfrenata probabilmente riflette lo stato mentale di Shekau, un personaggio enigmatico conosciuto solo attraverso i video dei suoi incoerenti monologhi. In uno di questi, giustifica così il fatto di aver venduto come schiave le ragazze sequestrate a Chibok : “Allah dice che le devo vendere. Mi ordina di venderle”. Un uomo che ha assistito ai suoi sermoni dice che chi lo conosceva da bambino lo ricorda come un tipo solitario dal carattere irascibile. “Anche quando recita il corano urla a squarciagola”, dice. “Era molto aggressivo e violento”.

La brutalità di Shekau si è dimostrata eccessiva perfino per l’Is, al quale ha giurato fedeltà nel 2015, cambiando il nome di Boko haram in Provincia dello stato islamico dell’Africa occidentale (Iswap). Nel 2016, l’Is ha nominato a capo dell’Iswap Abu Musab al Barnawi, dividendo il gruppo in due fazioni.

Nel frattempo, migliaia di abitanti dei villaggi e di Maiduguri avevano preso machete o moschetti e sono entrati a far parte delle milizie di autodifesa, la task force civile (Cjtf) che controlla le porte della città. Il nuovo presidente nigeriano Muhammadu Buhari, un ex dittatore militare del nord, ha ordinato ai suoi generali di trasferire il loro quartier generale a Maiduguri. Stati vicini come il Ciad, il Niger e il Camerun hanno dato il loro contributo di truppe a un esercito multinazionale. Nel giro di pochi mesi, avevano ripreso la maggior parte delle città più grandi, costringendo i ribelli a rifugiarsi nelle foreste o sul lago Ciad, una serie di acquitrini all’incrocio tra quattro paesi.

L’esercito nigeriano controlla le città principali e alcune delle strade che le collegano, i ribelli tengono sotto scacco le campagne e i villaggi

Da allora la situazione è stagnante. L’esercito controlla le città principali e alcune delle strade che le collegano, i ribelli tengono sotto scacco le campagne e i villaggi. Secondo gli americani, Barnawi dispone di circa 3.500 uomini (probabilmente Shekau ne ha 1.500), il che significa che forse è al comando del più grande esercito dell’Is del mondo, mentre si ritiene che in Siria e in Iraq siano rimaste solo poche migliaia di suoi combattenti.

L’Iswap ha imparato a fabbricare bombe da piazzare sul ciglio delle strade ed è diventato più abile nel condurre gli attacchi. Molti pensano che sia addestrato e consigliato da altri gruppi jihadisti, compreso l’Is. Tra i suoi ranghi sono stati individuati anche alcuni combattenti stranieri. “Vediamo gente che viene dal Mali e dalla Libia”, dice Abba Kalli, un comandante della Cjtf, formata da circa 26mila uomini. Il livello di preparazione raggiunto dall’Iswap è apparso chiaro lo scorso febbraio, quando i suoi uomini hanno organizzato un raid a lungo raggio per andare a rapire 110 studentesse a Dapchi, una cittadina nel vicino stato dello Yobe. “Si sono allontanati di circa 400 chilometri e sono tornati indietro”, dice un ufficiale occidentale. “Non è una cosa che l’esercito nigeriano è in grado di fare”.

Il califfato nei villaggi
Sebbene sia molto più efficiente di quanto non lo fosse nel 2015, l’esercito è oberato di lavoro e giù di morale. Circa la metà della sua fanteria, 70mila uomini in tutto, è schierata nel nordest. Non comunica i dati delle sue perdite, ma chi è al corrente delle cifre dice che l’anno scorso sono stati uccisi 300 soldati e ne sono rimasti feriti 1.500. Avendo schierato una tale percentuale di truppe, non può far ruotare i singoli uomini o le unità per farli riposare e riaddestrare. Un soldato delle forze speciali dice di essere in servizio attivo senza interruzioni da quattro anni. Lo stress emotivo che questo provoca si vede chiaramente dallo sguardo vitreo e gli occhi arrossati di uno dei suoi compagni, che ci guarda attraverso una nuvola di marijuana.

Diversamente da Boko haram, che non si è mai presa la briga di governare, l’Iswap sta consolidando il suo controllo sui villaggi di confine. Impone “tasse” agli abitanti e istituisce posti di blocco per estorcere denaro alle auto in transito. Offre sicurezza e il suo tipo di giustizia nelle zone dove ormai lo stato ha perso il controllo. Anche se non è in grado di battere l’esercito nigeriano in uno scontro diretto, sta costruendo un suo protocaliffato. “Vediamo la bandiera nera dell’Is sulle capanne dei villaggi”, dice un ufficiale.

I generali nigeriani vorrebbero “conquistare i cuori e le menti” ma stanno ottenendo il risultato esattamente opposto. L’esercito caccia via regolarmente gli abitanti dalle campagne, bruciando i villaggi e spedendoli negli squallidi campi di Maiduguri o di altre “guarnigioni”. Nel complesso, il conflitto in Nigeria e nei paesi confinanti ha costretto quasi due milioni e mezzo di persone a lasciare le loro case. L’esercito sostiene che è necessario allontanare la popolazione dai combattimenti per proteggerla e impedire che dia cibo e rifugio ai jihadisti. “Nessuno è innocente nella savana”, dice Kalli del Cjtg.

La fabbrica di jihadisti
La maggior parte degli osservatori pensa che ad alimentare la ribellione sia proprio il fatto che l’esercito uccide indiscriminatamente e costringe le persone a spostarsi nelle guarnigioni. Nei campi non c’è quasi lavoro. Vi si accede attraverso posti di blocco dell’esercito e del Cjtf in cui i soldati chiedono tangenti. Secondo Amnesty international, nei campi sono state violentate molte donne e ragazze e centinaia, se non migliaia, delle persone che vi sono state rinchiuse sono morte di fame o per mancanza di cure mediche. “Questo non fa che rafforzare la propaganda dell’Iswap, secondo la quale al governo nigeriano non importa un accidenti di loro”, dice un vecchio operaio. “Sono una fabbrica di jihadisti”.

Il fallimento dello stato nigeriano non si vede solo nei campi. Nelle zone controllate da Boko haram quasi nessuno riceve istruzione, cure mediche o altri servizi pubblici. A Bama, una città dove un tempo vivevano 250mila persone, oggi l’ospedale centrale ospita gli sfollati. Secondo le organizzazioni umanitarie, il governo non ha mandato più di due amministratori civili in città. In poche parole, il nordest del paese è uno stato fallito all’interno di uno che non funziona.

Il Programma di sviluppo dell’Onu ha riscontrato che il 71 per cento delle persone che in Africa si sono unite ai gruppi jihadisti lo ha fatto per reazione alla brutalità delle forze di sicurezza, la maggior parte delle quali non hanno nessuna istruzione e proviene dalle zone più povere del paese. I pochi servizi che esistono nei campi sono forniti da organizzazioni umanitarie come Medici senza frontiere (Msf) o dal World food program (Wfp), che contribuisce a sfamare circa due milioni di persone. Ma questo non basta. Nella clinica di Msf di Maiduguri, più della metà dei letti sono occupati da bambini scheletrici con i capelli che sono diventati fragili e arancioni a causa della denutrizione.

Il grande assente
Eppure, in tutta questa disperazione, si intravede un barlume di sviluppo economico. A Bakassi, un grande campo profughi, Haija Kale Muhammad mostra con un ampio sorriso una borsa confezionata con la macchina da cucire che ha comprato con il finanziamento del Cicr. È riuscita a sfuggire da Boko haram con i suoi quattro figli tre anni fa. Adesso ha una piccola impresa che le permette di guadagnare circa 50mila naira (120 euro) alla settimana, una bella somma in un paese dove il salario minimo è di 18mila naira al mese. Il Cicr, che l’anno scorso ha investito il 60 per cento delle sue risorse nel nord della Nigeria per gli aiuti alimentari d’emergenza, adesso sposterà quella quota sullo sviluppo. Anche il Wfp sta cercando di rimettere in piedi i contadini e i pescatori fornendo loro sementi e reti da pesca. Questo tipo di interventi ha perfino un nome: “triple nexus” , perché consiste nel garantire contemporaneamente aiuti d’emergenza, assistenza allo sviluppo e sicurezza, nella speranza che si rinforzino a vicenda.

Il grande assente è il governo nigeriano. Due anni fa ha pubblicato un piano in ben quattro volumi su come ricostruire il nordest, ma ha abdicato a qualsiasi tentativo di sviluppo e intervento umanitario a favore delle organizzazioni internazionali. “Ci hanno mollato la patata bollente e adesso dobbiamo vedercela noi”, dice un volontario.

Questo lassismo preoccupa gli eserciti occidentali, che sono riluttanti a lasciarsi risucchiare in un’altra guerra. Stati Uniti e Regno Unito addestrano le truppe e forniscono consigli e informazioni. In Niger le forze speciali statunitensi vanno anche in pattuglia con i soldati, e la Francia conduce vaste operazioni in tutto il Sahel. Le potenze occidentali stanno finanziando il G5, l’esercito antiterrorismo regionale formato da soldati di Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritana e Niger, ma sono riluttanti ad assumere un ruolo più diretto nella lotta all’Iswap in Nigeria, come quello che svolgono in Somalia, dove gli Stati Uniti hanno 500 soldati a terra ed eseguono raid e attacchi con i droni per uccidere o catturare i jihadisti (a giugno hanno perduto un uomo). Questo è in parte dovuto al fatto che, almeno per il momento, l’Iswap non costituisce una minaccia diretta per i paesi occidentali. La zona del lago Ciad è inaccessibile, perciò pochi combattenti stranieri possono entrare o uscire. È anche terribilmente povera, e quindi poco attraente per i jihadisti nati in occidente che già si lamentavano del fatto che in Iraq e in Siria non ci fosse nessuna comodità. Altre unità jihadiste della regione si sono dimostrate capaci di attaccare bersagli occidentali come gli alberghi. Ma negli ultimi anni solo l’Is è riuscito a sferrare attacchi in Europa.

Ripensamento americano
La morte di quattro soldati statunitensi in un’imboscata in Niger lo scorso ottobre sta già sollevando dubbi sull’entità del coinvolgimento degli Stati Uniti in Africa. Si è trattato della maggior perdita di vite umane in combattimento subita dall’America da quando 18 soldati erano stati uccisi a Mogadiscio 25 anni fa, incidente che aveva provocato il ritiro delle sue forze. L’imboscata in Niger potrebbe provocare un ripensamento simile. I soldati americani in Africa hanno ricevuto l’ordine di partecipare a meno missioni e di correre meno rischi. All’inizio di quest’anno, il Pentagono ha detto all’Africom di programmare una riduzione del 50 per cento delle sue forze speciali nell’arco di tre anni. Per riempire quel vuoto, il Regno Unito, la Francia e i loro alleati dovranno mandare più truppe sul terreno.

Qualcuno ritiene che l’impegno militare andrebbe potenziato. Una campagna di bombardamenti aerei occidentale potrebbe infliggere gravi perdite all’Iswap e impedirgli di riorganizzarsi per almeno un anno. Ma probabilmente i soli raid aerei non sarebbero sufficienti per sconfiggerlo. “Potremmo eliminare i capi, ma questo migliorerebbe le cose?”, si chiede un ufficiale britannico. Gli alti ufficiali occidentali sostengono che è necessario un impegno a lungo termine per addestrare, equipaggiare e assistere le forze locali, oltre a fornire il sostegno aereo quando serve.

Il generale Hicks paragona la nascita del jihadismo in Africa a quella dei taliban in Afghanistan nel 1993. “La minaccia per l’occidente è ancora minima e può essere tenuta a bada a un prezzo ragionevole in termini sia di spargimenti di sangue sia di denaro”, dice. “Se la situazione si incancrenisse il pericolo potrebbe aumentare fino a costringere le forze occidentali a intervenire direttamente e massicciamente. Ma l’esperienza dell’occidente in Afghanistan dal 2001 in poi ci ha insegnato un’altra cosa: il solo intervento militare non è sufficiente a risolvere i problemi. Può disturbare i jihadisti e far guadagnare tempo per riconquistare le fiducia degli scontenti e degli emarginati. Ma questo è un compito che spetta soprattutto ai governi dei paesi africani, se ne sono all’altezza”.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale britannico The Economist.

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