20 settembre 2018 10:17

“Ogni idiota con una mappa e un fucile in mano adesso è in fermento”, osserva un funzionario straniero che lavora a Pristina, capitale del Kosovo. Dieci anni dopo aver dichiarato l’indipendenza unilaterale dalla Serbia, il Kosovo non è ancora stato ammesso a far parte delle Nazioni Unite. Serbi e albanesi sono rimasti con il fiato sospeso durante le recenti trattative tra i governi dei rispettivi paesi per uno scambio di territori dove vivono decine di migliaia di persone. È un’idea che sta suscitando speranze e timori nei Balcani e provoca inquietudine nello stesso Kosovo.

Quando la Jugoslavia, l’Unione Sovietica e la Cecoslovacchia si sono disgregate, negli anni novanta, i nuovi stati sono nati all’interno di confini preesistenti. Ma se oggi il Kosovo e la Serbia ridisegnassero i loro confini su basi etniche sarebbe uno stravolgimento importante e potenzialmente destabilizzante per tutta la regione.
Potrebbe significare, per esempio, che il leader serbo di Bosnia torni alla carica con la rivendicazione d’indipendenza sostenendo che i vecchi confini interni della Jugoslavia sono stati cancellati e che la stessa cosa potrebbe accadere adesso in Bosnia. Il rischio sarebbe quello di una nuova guerra.

In realtà, quasi in sordina, sta già per realizzarsi una prima ridefinizione etnica dei confini. Il 12 settembre la municipalità di Gračanica, un’area a maggioranza serba in Kosovo, ha votato la cessione di una parte del suo territorio a una provincia confinante a maggioranza albanese. Un nuovo complesso residenziale abitato da albanesi ha cambiato la proporzione tra le due etnie nella città, e con questa mossa i serbi ora hanno trovato il modo di sbarazzarsi della popolazione albanese. Ma cambiare i confini tra i due stati non sarà altrettanto facile. Ed è anche una questione estremamente controversa. Secondo un editoriale del New York Times rappresenterebbe sia “una forma pacifica di pulizia etnica” sia “la cosa giusta da fare”.

Serbi e albanesi non hanno mai risolto pacificamente le loro dispute

Più del 90 per cento della popolazione del Kosovo è di etnia albanese, e all’incirca il 5 per cento è serba. Escluso dall’Onu, il Kosovo non è stato riconosciuto dalla Serbia e da molti altri paesi, tra cui anche la Spagna e la Russia. Il nocciolo dell’accordo prevede che il nord del Kosovo, a maggioranza serba (che già sfugge di fatto al controllo del governo di Pristina), sia restituito alla giurisdizione della Serbia. In cambio, Belgrado concederebbe al Kosovo la valle di Preševo, area a maggioranza albanese nel sud della Serbia, e soprattutto riconoscerebbe il Kosovo come stato. In ogni caso, qualunque accordo non potrà prescindere dalla volontà della Russia e della Cina di rinunciare al proprio veto alle Nazioni Unite e permettere così l’adesione del Kosovo.

Ad agosto, quando gli albanesi della diaspora sono tornati in Serbia per le vacanze, la valle di Preševo pulsava di euforia. I genitori apostrofavano i loro bambini in svizzero tedesco o in francese con accento belga. Gli albanesi della zona sono entusiasti all’idea di vivere in un unico stato con i loro compatrioti in Kosovo. I loro vicini serbi invece pensano che non accadrà mai. Dopo tutto, serbi e albanesi non hanno mai risolto pacificamente le loro dispute, dice Marko, 22 anni, gestore di un negozio di alimentari. “Perché dovrebbero cominciare a farlo adesso?”. A poca distanza alcune ruspe stanno completando i lavori dell’autostrada che attraversa la valle, parallela alla ferrovia. Queste tratte collegano la Serbia all’Europa centrale e alla Grecia. È difficile credere che Belgrado sia disposta a rinunciarci.

Dall’altro lato, in Kosovo, il villaggio di Babin Most, a maggioranza serba, si affaccia da una collina sul terreno dove gli eserciti serbi furono sconfitti dai turchi nella famosa battaglia della piana dei Merli nel 1389. Babin Most si trova nel centro del Kosovo, quindi fuori della zona che potrebbe tornare a far parte della Serbia. La maggior parte dei 120mila serbi del Kosovo infatti vive lontana dal nord del paese ed è terrorizzata all’idea che la Serbia possa abbandonarli a se stessi (per lo meno, è così che la vedono loro). Padre Sava, abate del monastero medievale serbo di Visoki Dečani (nell’ovest del Kosovo) si è schierato con forza contro la divisione, guadagnandosi il marchio di traditore sui mezzi d’informazione governativi serbi.

A Pasjane, un altro villaggio serbo nel sudest del Kosovo, c’è una strada che porta il nome di Dobrica Ćosić, un autorevole scrittore morto nel 2014, che considerava il Kosovo e i suoi albanesi un “cancro” da rimuovere chirurgicamente attraverso la divisione.

Sia l’Unione europea sia gli Stati Uniti in passato hanno sempre bocciato l’ipotesi di ridefinire i confini della regione su basi etniche, convinti che questo l’avrebbe destabilizzata. Adesso hanno dato il via libera ai due presidenti, il kosovaro Hashim Thaçi e il suo omologo serbo Aleksandar Vučić, per la ricerca di un possibile accordo. Ma sarà difficile, se non impossibile, raggiungerlo. Il 7 settembre Vučić ha rifiutato di incontrare Thaçi in un incontro organizzato dall’Unione europea a Bruxelles. Poi durante una visita in Kosovo ha elogiato Slobodan Milošević, il leader serbo che ha oppresso gli albanesi della provincia e ne ha sterminati decine di migliaia durante la guerra del 1998-99.

Vučić vuole la garanzia che, in caso di accordo, la Serbia sia ammessa nell’Unione europea. Ma l’Europa non può promettere niente del genere. È chiaro che anche il semplice inizio della discussione apre nuove prospettive per la regione. “Ci sono sempre altre opzioni”, ha dichiarato un alto funzionario kosovaro albanese, lasciando intendere che se il Kosovo non sarà riconosciuto dalla Serbia e non potrà entrare a far parte dell’Onu, potrà sempre optare per un’unione con l’Albania. Alcuni nazionalisti serbi, consapevoli che ormai il Kosovo è definitivamente perduto, potrebbero anche accettare di buon grado questo scenario. Se ci fosse una Grande Albania, allora potrebbero a loro volta chiedere una Grande Serbia, rivendicando la parte serba della Bosnia. Che poi è stato il motivo per cui Milošević ha combattuto la sua guerra.

(Traduzione di Francesco De Lellis)

Questo articolo è stato pubblicato sul settimanale britannico The Economist.

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