20 maggio 2020 16:03

Quarant’anni fa, il 17 maggio 1980, alla vigilia di un’elezione presidenziale che doveva mettere fine alla dittatura militare, cinque persone con il viso coperto diedero fuoco alle urne elettorali a Chuschi, un villaggio della regione di Ayachucho, nelle Ande peruviane. La loro azione segnò l’inizio della più strana e brutale guerriglia dell’America Latina: quella di Sendero luminoso, una formazione maoista fondamentalista affine agli Khmer rossi di Pol Pot, in Cambogia.

Oggi in Perù si vive decisamente meglio, anche se con il covid-19 si può di nuovo morire in maniera improvvisa. Ma il terrore scatenato da Sendero (come lo chiamavano i peruviani), spesso uguagliato dalla risposta dello stato, ha fatto emergere fratture sociali e lasciato cicatrici. La Commissione per la verità e la riconciliazione ha in seguito stimato che 69mila persone siano state uccise o siano “scomparse”, e che circa cinquecentomila abbiano dovuto lasciare le proprie case. La commissione ha ritenuto Sendero responsabile di quasi metà dei morti, le forze governative di un terzo, e le milizie dei villaggi di buona parte di quelle rimanenti.

Sendero fu creato da Abimael Guzmán, un professore di filosofia che negli anni settanta assunse il controllo dell’università dell’antica città coloniale di Huamanga, capitale dello stato di Ayachuco, reclutando studenti e insegnanti, tra cui molte donne. Il centro della ribellione era l’hinterland rurale dell’Ayachucho, fatto di strade sterrate, gelide montagne e villaggi sperduti, abitati da popolazioni di lingua quechua che praticavano un’agricoltura di sussistenza. Sendero avrebbe finito per essere detestato dalla maggior parte dei peruviani. Ma le sue azioni di linciaggio di funzionari e mercanti prepotenti, nelle regioni dimenticate di un paese ingiusto, gli valsero inizialmente un certo sostegno popolare.

Guzmán dirigeva i massacri da comode abitazioni prese in affitto nei quartieri più chic di Lima

Gli abitanti dei villaggi si stancarono presto di Sendero, ed era palpabile l’atmosfera di minaccia e lutto di una guerra senza volto, spesso portata avanti di notte. Massacri furono compiuti sia dal gruppo sia dallo stato. Solo quando l’esercito riconobbe gli abitanti dei villaggi come alleati, organizzandoli in milizie, Sendero venne sconfitto nella sua roccaforte. Quando questo accadde, aveva già portato il terrore e le bombe a Lima, contribuendo al crollo economico del paese, e prosperando grazie a esso.

Guzmán alimentò un pomposo culto della personalità, facendosi chiamare “presidente Gonzalo” e presentandosi – in un’iconografia che lo ritraeva accanto a Marx, Lenin e Mao – come “la quarta spada del marxismo-leninismo”. La sua azione fu all’insegna di un’assoluta incoerenza morale. Dirigeva i massacri da comode abitazioni prese in affitto nei quartieri più chic di Lima. Nel 1992, quando venne rintracciato grazie a un lavoro investigativo vecchio stampo, si arrese docilmente. Oggi ha 85 anni ed è in carcere. Alcune migliaia di suoi sostenitori si nascondono ancora nelle bidonville di Lima.

Alberto Fujimori, sotto la cui presidenza si sono consumate la sconfitta di Sendero e la ripresa economica del paese, ha usato il gruppo come spauracchio per costruire una dittatura. Salutato da molti come un salvatore, e odiato da molti altri che vedono in lui un autocrate corrotto, Fujimori continua a dividere. In maniere diverse, sia lui sia Sendero hanno indebolito le istituzioni.

Lo psicoanalista Max Hernández sostiene che, nonostante la Commissione per la verità, il paese “non ha mai elaborato il lutto, né si è ripreso dal trauma”. Secondo lui la guerra ha rivelato che, dopo cinque secoli di mescolanza razziale, il Perù deve ancora colmare la distanza tra la sua popolazione indigena e il resto degli abitanti. Tre quarti delle vittime della guerra erano persone di lingua quechua delle zone rurali, trattate con disprezzo da Guzmán e con indifferenza dallo stato.

Nel nuovo secolo sono usciti moltissimi libri sugli anni di Sendero luminoso. Nel 2015, a Lima, è stato inaugurato un museo della memoria. Creato a partire del lavoro della Commissione per la verità, è un’istituzione toccante e imparziale, e racconta le storie delle vittime di entrambi i lati. Ma i visitatori sono pochi. Molti, tra i peruviani che hanno vissuto il capitolo più oscuro della storia recente del loro paese, preferiscono dimenticare.

Quanto allo stato di Ayachucho, “il terrorismo ha distrutto tutto”, dice Carlos Añanyos, la cui famiglia ha creato un’attività di bibite analcoliche a Huamanga nel 1988, divenuta oggi una multinazionale con sede a Madrid. Il reddito pro capite della regione è ancora pari a due terzi della media nazionale. Añanyos ha creato una fondazione che, prima della pandemia, promuoveva il turismo nell’Ayachucho e i prodotti della regione, tra cui alcune varietà di patate, tinture naturali e manufatti artigianali.

Ci sono motivi di ottimismo. Uscito dal disastro degli anni ottanta, il Perù ha creato un’economia di mercato di successo, che ha ridotto sensibilmente la povertà. Le divisioni etniche si sono attenuate, soprattutto tra i giovani. La crescita economica ha raggiunto anche gli abitanti delle Ande, grazie a migliori comunicazioni. Ayachucho significa “angolo della morte” in quechua. Almeno questo, covid-19 a parte, non è più vero.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.

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