27 maggio 2020 13:28

“Dai, sorridi! Questo è il giorno più importante della tua vita. ” L’ostetrica era ottimista. Ma Agustina, un’attrice comica argentina di 38 anni appena diventata madre, era turbata. Era il 2012 e aveva appena subìto un taglio cesareo in un ospedale. Il suo ostetrico, a suo avviso, aveva reso più probabile la necessità dell’intervento chirurgico inserendo degli ormoni nella sua vagina durante una visita di controllo, senza dare spiegazioni.

Due uomini avevano eseguito la pericolosa manovra di Kristeller, spingendo verso il basso sulla pancia. Era svenuta. Un assistente l’aveva schiaffeggiata leggermente per tenerla sveglia. Un altro le aveva legato il braccio al letto. Niente di tutto ciò sembrava giusto. Ma, racconta, “pensavo che il dottore fosse come il tuo capo: tu fai quello che ti dice”.

Il suo calvario non è insolito. Alcune inchieste svolte nei paesi dell’America Latina hanno rivelato che tra un quarto e un terzo delle donne che partoriscono subiscono abusi a un certo punto del travaglio.

Conseguenza del progresso
Secondo un’indagine svolta nel 2016, il 24 per cento delle donne messicane ha riferito di abusi durante l’ultimo parto e il 17 per cento ha riferito di cure non consensuali. Una forma comune di maltrattamento sono poi gli umilianti commenti del personale, riportati dal 7 per cento delle donne. Altre cattive pratiche sono la sospensione degli antidolorifici senza spiegazione (sperimentato dal 5 per cento delle donne) e la contraccezione forzata e la sterilizzazione dopo il parto (4 per cento). Un decimo delle donne che hanno avuto cesarei ha dichiarato che non avevano dato il consenso.

Le donne molto giovani, non sposate e povere assistite in un ospedale pubblico sono quelle che avevano più probabilità di soffrire. Gli attivisti denunciano ciò che chiamano “violenza ostetrica”, un termine che applicano non solo agli atti violenti.

In Brasile, un movimento per “umanizzare il parto” è attivo da almeno trent’anni

Tale abuso è, perversamente, una conseguenza del progresso. Una migliore assistenza sanitaria ha ridotto la mortalità materna e infantile. Eppure ha anche rafforzato una cultura che tratta i medici come infallibili, i pazienti come esseri passivi e la chirurgia come la prima scelta, anche quando fosse dannosa o contraria ai desideri di una donna. Il covid-19 potrebbe aggravare il problema.

Il maltrattamento delle gestanti non è limitato all’America Latina. In Italia un quinto delle neomadri riferisce di abusi. In Etiopia sono i tre quarti. È insolito però che nella regione americana per decenni sia stato attivo un impegno che aveva portato a delle leggi mirate a ridurre gli abusi.

In Brasile, un movimento per “umanizzare il parto”, guidato da femministe ed esperti di sanità pubblica, è attivo da almeno trent’anni. Alcune campagne successive hanno cercato di “educare con la legge”, afferma Roberto Castro dell’Università nazionale autonoma del Messico. Le modifiche normative renderebbero le persone più consapevoli del problema, e quindi più propense a esercitare pressioni su medici e altri addetti alla cura affinché si comportino correttamente.

Nel 2007 il Venezuela è diventato il primo paese a rendere reato la “violenza ostetrica“, definendola “appropriazione dei corpi e dei processi riproduttivi delle donne da parte degli operatori sanitari”. Leggi simili sono state approvate in Argentina, in Bolivia e a Panama. Altre misure sono più pratiche. Nel 2001 l’Uruguay ha dato alle future madri il diritto di avere un accompagnamento durante il parto. Nel maggio di quest’anno Puebla, uno stato messicano, ha classificato come violenza ostetrica filmare un parto senza il consenso della madre.

La pandemia sospende i diritti
Non ci sono molte prove che le leggi stiano funzionando. Pochi governi rilasciano dati sulla loro attuazione. Gli stati messicani di Tlaxcala e Morelos, due dei cinque dove gli abusi erano più diffusi secondo l’inchiesta, hanno riferito di non aver ricevuto lamentele formali, afferma l’organizzazione no profit Gruppo di informazione sulla scelta riproduttiva. I tribunali sono riluttanti a coinvolgere i medici a meno che non abbiano danneggiato fisicamente la madre o il bambino, in parte perché non è possibile provare altri abusi basandosi sulle cartelle cliniche. Le rare punizioni non migliorano le condizioni di lavoro dei medici, il che è più importante, afferma Arachu Castro dell’Università di Tulane a New Orleans. In Messico alcuni ospedali sono talmente messi a dura prova che le donne partoriscono sul marciapiede o sul prato all’esterno. Durante la pandemia alcuni diritti, come avere un compagno vicino o scegliere il parto naturale, sono stati sospesi.

Il sistema sanitario in rovina del Venezuela si beffa della “politica di nascita umanizzata”. Le donne che entrano in sala parto devono spesso portare da casa le proprie forniture mediche, come il disinfettante. Quando è entrata in vigore la legge sulla violenza ostetrica, Rogelio Pérez-D’Gregorio, ex responsabile della Società di ostetricia e ginecologia, ha consigliato agli ostetrici di proteggersi prendendo nota dei farmaci mancanti e di altri problemi al di fuori del loro controllo.

Tali deficit non spiegano perché le donne come Agustina, che hanno partorito in una clinica privata ben attrezzata, soffrano allo stesso modo. Castro incolpa un “atteggiamento medico autoritario”, instillato nelle università da dottori sia maschi sia femmine. I critici affermano che gli insegnanti spesso danno più valore all’abilità tecnica che al benessere dei pazienti. In Brasile alcune denunce hanno rivelato che ai futuri dottori veniva insegnato a eseguire episiotomie, tagli chirurgici al perineo, per esercitarsi, anche se le pazienti non ne avevano bisogno.

Mentre gli attivisti si concentrano sulla pressione e sulla punizione, alcuni governi e agenzie internazionali stanno cercando di essere meno conflittuali, a partire dal linguaggio che usano per descrivere il problema. L’anno scorso il Consiglio regionale di medicina di Rio de Janeiro, che supervisiona i medici, ha dichiarato che il termine “violenza ostetrica” ​​è stato “inventato per diffamarli”. La Pan American health organization preferisce parlare di “abusi durante il parto” perché “molte volte solo menzionando violenza ostetrica si chiude la possibilità di un dialogo”, afferma Bremen De Mucio, un consulente del gruppo, che prevede di lanciare un seminario sull’assistenza ostetrica rispettosa entro ottobre.

I governi stanno cominciando a dare più rilevanza alla formazione. Il ministero della salute brasiliano ha avviato un programma che mette in primo piano i diritti delle donne in ostetricia in circa cento ospedali universitari. In Argentina un programma simile ha contribuito a ridurre la mortalità infantile e materna.

Ma i progressi sono lenti. Quando Agustina è rimasta incinta di nuovo, nel 2014, ha cambiato ostetrica e ospedale e ha scritto il suo progetto di parto. Comprendeva un parto naturale e un contatto immediato pelle a pelle con il suo bambino, che avrebbe bevuto latte materno, non in polvere. L’ospedale ha respinto tutte le sue richieste. Dopo il taglio cesareo, una dottoressa ha minacciato di denunciare Agustina ai servizi di protezione dei minori. È uscita dall’ospedale incapace di lavorare e lottando per stabilire un legame con il suo bambino. Il suo matrimonio è finito. Nel 2016 ha intentato una causa contro i medici, l’ospedale e gli assicuratori sanitari, il primo caso del genere in Argentina. Sta ancora aspettando un verdetto.

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.

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