19 agosto 2021 14:26

Le famiglie statunitensi sono indignate dal nuovo programma scolastico. I politici temono che gli insegnanti stiano indottrinando gli allievi con una storia revisionista e antiamericana. I progressisti sostengono invece che questa nuova versione dei programmi rifletta una realtà americana che non dovrebbe essere nascosta ai bambini. Le due parti si scontrano nelle riunioni scolastiche, i docenti sono sotto attacco. In gioco c’è il dibattito sulla teoria critica della razza che viene spiegata nelle aule scolastiche.

La teoria critica della razza (critical race theory, Crt nell’acronimo inglese), l’attuale terreno di scontro, è nata negli anni settanta come un approccio giuridico che rimarcava il ruolo del razzismo sistemico (piuttosto che quello individuale) nel riprodurre la disuguaglianza. Il Goldwater Institute, un think-tank conservatore che cerca di impedire l’insegnamento della teoria critica della razza nelle scuole, definisce così questo insieme di idee: una “prospettiva secondo la quale tutti gli eventi e le idee intorno a noi siano da spiegare in termini di identità razziali”. A complicare il dibattito c’è il fatto che alcuni conservatori usano l’espressione fino a comprendere qualsiasi cosa, dalle discussioni sul razzismo istituzionale all’educazione alla diversità.

Secondo l’organizzazione EdWeek, ventisei stati hanno introdotto delle misure che limiterebbero la divulgazione della teoria critica della razza nelle scuole pubbliche. Anche i legislatori federali rincarano la dose. Sette senatori repubblicani, tra cui il leader della minoranza Mitch McConnell, a giugno hanno rilanciato il “Saving american history act” per limitare i finanziamenti federali alle scuole che usano programmi derivati dal 1619 Project, una serie di saggi vincitori del premio Pulitzer e pubblicati dal New York Times che mettono la schiavitù al centro della fondazione e dello sviluppo della nazione (e che hanno ricevuto recensioni contrastanti dagli storici). Il progetto di legge federale, introdotto per la prima volta nel luglio 2020, è per lo più simbolico: il congresso ha scarso controllo sui programmi scolastici statali e locali, ed è difficile che la proposta possa essere approvata con un senato e una camera a maggioranza democratici. Ma la linea politica è chiara. I repubblicani sono convinti che fare la guerra alla teoria critica della razza sia una buona politica, anche se il tentativo di metterla al bando potrebbe rivelarsi incostituzionale.

La legge del Tennesse, firmata a maggio dal governatore, vieta alle scuole pubbliche di insegnare concetti che promuovono “imbarazzo, colpa, ansia o altre forme di stress psicologico”. La legge del Texas censura espressamente il 1619 Project, vieta agli insegnanti di dare crediti scolastici a chi fa “promozione di politiche pubbliche o sociali”, proibisce formazioni obbligatorie “che divulgano qualunque forma di stereotipi razziali o di genere o di colpevolizzazione sulla base della razza o del sesso”, e limita gli insegnamenti in cui “schiavitù e razzismo non sono considerati semplicemente una deviazione, un tradimento o un mancato adempimento dei princìpi fondamentali degli Stati Uniti”. La legislazione dell’Idaho vieta a qualunque istituzione pubblica, tra cui i college, di “costringere gli studenti ad affermare, adottare o seguire” il concetto secondo cui “gli individui sono intrinsecamente responsabili per azioni commesse nel passato”. A maggio il vicegovernatore dell’Idaho ha messo in piedi una taskforce “per proteggere i nostri giovani dalla piaga della teoria critica della razza, del socialismo, del comunismo e del marxismo”.

Non è chiaro con quale diffusione la teoria descritta da liberali e conservatori venga insegnata nelle aule scolastiche. Secondo la Heritage Foundation, un altro think-tank conservatore, il 43 per cento degli insegnanti è a conoscenza della teoria critica della razza, e soltanto il 30 per cento di questo gruppo la considera di buon occhio (circa uno su dieci nel complesso). Ciononostante, la National education association, il più grande sindacato statunitense, ha di recente diffuso una dichiarazione con la quale sposa la teoria.

La battaglia in corso su come debba essere raccontata la storia nazionale potrebbe sembrare nuova, ma è parte di uno scontro vecchio di un secolo, cominciato nel 1918, quando l’istruzione è diventata obbligatoria in tutti gli stati. Negli anni venti del novecento lo storico David Muzzey fu etichettato come un traditore per il suo libro di testo An american history (Una storia americana), il quale secondo i suoi detrattori danneggiava lo spirito americano con distorsioni filo-britanniche della rivoluzione e della guerra del 1812. Lo storico Gary Nash, un oppositore del testo di Muzzey, affermò che dopo averlo letto i bambini americani avrebbero cantato God save the king, anziché Yankee doodle dandy, la canzone patriottica statunitense legata alla guerra di indipendenza e alla guerra di secessione.

A ciascuno il suo libro di testo
Altre polemiche seguirono. Negli anni trenta Harold Rugg, un professore di pedagogia, fu accusato dai conservatori di “sovietizzare i nostri bambini”. I detrattori sostenevano che il suo libro di testo si concentrasse sui problemi sociali degli Stati Uniti e che diffondesse l’ideologia marxista. L’era di McCarthy diede la spinta alle inchieste sugli insegnanti considerati simpatizzanti comunisti. Negli anni settanta le guerre sui libri di testo scatenarono violenze in West Virgina, dove alcuni manifestanti lanciarono bombe contro le scuole e ferirono dei giornalisti per dei libri che avevano contenuti multiculturali controversi. Anche i liberali hanno tentato di censurare alcune opere. Negli anni ottanta E.D. Hirsch, professore e critico letterario, pubblicò un elenco di elementi di cultura generale per i bambini statunitensi che divenne un bestseller del New York Times. I critici liberali accusarono Hirsh di aver dato maggior risalto alle conquiste degli uomini bianchi e a una prospettiva propria dell’Europa occidentale.

Forse lo scontro che più si avvicina a quest’ultimo è quello che si è verificato negli anni novanta in relazione agli standard nazionali volontari per l’apprendimento della storia. I programmi facoltativi, concepiti in origine sotto l’amministrazione di George H.W. Bush e poi portati avanti con Bill Clinton, furono stroncati dai conservatori. Lynne Cheney, moglie dell’ex vicepresidente Dick Cheney, in lizza per le presidenziali, esplicitò la propria opposizione in un editoriale sul Wall Street Journal intitolato “La fine della storia”. Lynne Cheney accusava gli standard di essere improntati al “politicamente corretto” e lamentava la mancata rappresentazione di maschi bianchi nel programma: Ulysses S. Grant veniva menzionato solo una volta, Robert E. Lee neanche una, mentre Harriet Tubman era citata sei volte. Il senato approvò una risoluzione di dissenso contro gli standard volontari, affossando il programma.

“Questi attacchi sono sempre legati a quello che accade nella politica di un dato periodo”, dice Nash, che ha contribuito a creare gli standard nazionali volontari. L’Understanding America Study, una rilevazione statistica su scala nazionale dell’università della Southern California, ha rivelato che gli statunitensi sono uniti sull’importanza dell’educazione civica per i bambini. Con lievi divergenze di parte, la maggioranza dei genitori concorda sull’importanza per i bambini di imparare il funzionamento del governo (85 per cento) e i requisiti per il voto (79 per cento).

Ma le differenze politiche emergono quando si tratta di chi debba comparire con maggiore evidenza nelle lezioni di storia. Le opinioni dei genitori divergono sull’importanza di imparare quel che riguarda le donne (l’87 per cento dei genitori democratici è a favore, contro il 66 per cento dei genitori repubblicani) e i non bianchi (l’83 per cento contro il 60 per cento). La maggioranza dei genitori democratici ritiene importante che gli studenti approfondiscano i temi del razzismo (88 per cento) e della disuguaglianza economica (84 per cento), rispetto a meno della metà dei genitori repubblicani (rispettivamente, 45 per cento e 37 per cento).

I conservatori tendono ad affermare che gli studenti debbano apprendere una versione unificata e ottimistica della storia americana, e che imparare quel che riguarda specifici gruppi sia divisivo. “La teoria critica della razza è distruttiva perché promuove la discriminazione razziale attraverso le categorizzazioni di affinità, la colpa razziale basata sulla propria etnia e non sul proprio comportamento, e rifiuta le idee fondamentali sulle quali si basa la nostra libertà”, spiega Matt Beienburg del Goldwater Institute. Invece i liberali sono disposti ad accettare una versione più frammentata e meno lusinghiera del passato del paese.

È questa la visione che sembra diffondersi maggiormente. Anche la Storia del popolo americano di Howard Zinn (raccontata dalla prospettiva delle donne e delle minoranze etniche) è annoverata nel dibattito sulla teoria critica della razza dal Goldwater Institute: dal 1980 a oggi ha venduto due milioni di copie. Il 1619 Project viene insegnato in molti distretti scolastici, tra cui quello di Chicago. Secondo la National education association, nove stati più il distretto della Columbia hanno leggi o politiche che istituiscono dei programmi di storia multiculturale o di studi etnici.

Greg Lukianoff, presidente della Foundation for individual rights in education, un’organizzazione senza scopo di lucro, invita gli statunitensi liberali a prendere sul serio i timori dei conservatori, o il rischio potrebbe essere quello di andare incontro a una “spaventosa” crescita del nazionalismo di estrema destra. “Mano a mano che la polarizzazione peggiora e la fiducia cala, andrà intensificandosi”, afferma. Se ogni guerra per la storia si fa più accesa di quelle precedenti, aggiunge, “dove andremo a finire tra dieci o vent’anni?”.

(Traduzione di Francesco De Lellis)

Questo articolo è stato pubblicato dall’Economist.

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