26 ottobre 2021 12:37

La popolazione mondiale di animali selvatici è diminuita in media del 68 per cento negli ultimi cinquant’anni, secondo il World wide fund for nature (Wwf). Deforestazione, agricoltura e allevamento intensivi, e le modifiche nell’uso dei terreni, sono i responsabili principali di questa perdita. Ma la natura potrebbe riprendersi, se ne avesse la possibilità. Era questo l’obiettivo della Cop 15, un vertice delle Nazioni Unite sulla biodiversità che si è tenuto alla metà di ottobre a Kunming, in Cina.

Più di cento paesi hanno riconosciuto la necessità di mettere fine al declino delle specie entro il 2030 e hanno ammesso che i danni all’ambiente e la crisi climatica hanno conseguenze negative sulla biodiversità. In questo senso, le inversioni di tendenza sono attese da tempo, non solo per il bene della natura: le stesse azioni che minacciano gli ecosistemi rappresentano un pericolo per la salute umana.

Il legame tra pratiche ambientali distruttive e l’emergere di malattie è confermato da studi sempre più numerosi. Ma non sono ancora chiari i nessi di causalità, come dimostrano le difficoltà nel determinare l’origine del covid-19 (il virus potrebbe essere uscito da un laboratorio oppure essere passato dai pipistrelli agli esseri umani, attraverso una specie intermedia), dunque capire perché i cambiamenti degli ecosistemi sono legati alla diffusione delle malattie, e cosa fa aumentare il rischio di epidemie.

Sforzi necessari
Tra più di 330 malattie emerse dal 1940 al 2004, circa i due terzi sono di tipo zoonotico, cioè sono trasmesse dagli animali agli esseri umani. È il caso, per esempio, dell’aids causato dal virus hiv, e probabilmente del covid-19. Oltre il 70 per cento di queste malattie ha avuto origine in animali selvatici, e non domestici. E anche se alla trasmissione di una malattia concorrono tanti fattori – la crescita della popolazione, le migrazioni e i cambiamenti climatici – gli scienziati studiano con sempre maggiore attenzione il modo in cui le alterazioni ambientali dei territori influenzano la catena di trasmissione di un agente patogeno dagli animali agli esseri umani.

La deforestazione favorisce il contatto tra gli esseri umani e gli animali portatori di malattie

Uno studio pubblicato nel marzo 2021 dai ricercatori dell’università di Montpellier e di Aix-Marseille, in Francia, ha individuato un legame tra la riduzione della superficie forestale globale dal 1990 al 2016 e l’aumento delle epidemie segnalate, tenendo anche conto del fatto che la deforestazione di solito determina un aumento di esseri umani che vivono nelle vicinanze. A mano a mano che la superficie forestale si è ridotta (dal 31,6 al 30,7 per cento), la presenza di malattie è cresciuta, in particolare nelle aree tropicali ricche di biodiversità.

Una delle probabili ragioni dell’aumento di agenti patogeni è che la deforestazione favorisce il contatto tra gli esseri umani e gli animali portatori di malattie. Gli scienziati hanno individuato una correlazione tra la diminuzione della superficie forestale in Africa occidentale e centrale e le epidemie di ebola scoppiate tra il 2004 e il 2014. Si pensa che il virus dell’ebola sia trasmesso da pipistrelli e primati infetti, anche se la dinamica non è ancora del tutto chiara.

Le interazioni con altri mammiferi non sono l’unica preoccupazione. Anche l’abbattimento degli alberi potrebbe accrescere la minaccia per gli esseri umani posta da infezioni virali trasmesse attraverso punture di zanzare, come lo zika, la dengue e la chikungunya. Alcuni ricercatori dell’università della Florida, negli Stati Uniti, hanno analizzato studi relativi a 87 specie di zanzare in dodici paesi. Circa metà di queste specie era legata ad ambienti deforestati. E più della metà trasmette malattie.

Rampa di lancio
La trasmissione di malattie può essere favorita pure dall’impianto di monocolture al posto di foreste centenarie, come nel caso delle piantagioni per ottenere l’olio di palma. Se gli habitat naturali dei predatori vengono distrutti e le loro popolazioni diminuiscono, possono proliferare roditori, zanzare, pipistrelli e alcuni primati. Questi a loro volta possono portare con sé agenti patogeni zoonotici, oltre al fatto che di solito si aggregano in luoghi dove sono più esposti a esseri umani e bestiame. I roditori, per esempio, vivono spesso nelle aree di confine tra le foreste e i pascoli di recente creazione.

Uno studio pubblicato nel 2020 sulla rivista Science da un gruppo di esperti di ecologia delle malattie ha definito i margini delle foreste tropicali come una “rampa di lancio importante” per i nuovi virus. La fauna selvatica può muoversi verso gli insediamenti umani anche alla ricerca di cibo. Gli alberi di mango piantati nelle fattorie suine della Malesia probabilmente hanno attirato i pipistrelli della frutta che hanno trasmesso il nipah, un virus che infettò gli allevatori di maiali locali nel 1999 e ogni anno provoca epidemie in Bangladesh.

Servono quindi più studi per capire in che modo le interazioni degli esseri umani con la natura favoriscano il diffondersi delle malattie. Ma l’emergere di nuovi agenti patogeni, come il sars-cov-2 che provoca il covid-19, rende gli sforzi per la salvaguardia della biodiversità ancora più necessari.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.

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