12 febbraio 2022 08:51

Chiedete a un prete, un rabbino o un imam qual è la sfida più grande per la sua congregazione e forse potrebbe sfuggirgli di bocca qualcosa sul bisogno di alimentare i valori spirituali in un mondo secolarizzato. Eppure le religioni di tutto il mondo devono affrontare un problema altrettanto grave ma di tipo diverso: come restare in attività, in un senso più materiale e competitivo. Nella religione come in altri ambiti il covid-19 ha contribuito a distinguere tra vincitori e sconfitti. Le chiese che rispondevano in modo efficace ai bisogni del loro gregge già prima della pandemia in molti casi hanno prosperato, poiché le persone sono più preoccupate dalla morte e durante il lockdown avevano più tempo libero per frequentare i servizi religiosi e pregare.

Le chiese che già prima non se la cavavano bene hanno però avuto più difficoltà a tenere insieme le loro congregazioni. La pandemia ha accelerato il passaggio alle celebrazioni online, offrendo a molte persone un tempo praticanti una buona scusa per non farsi vedere. Molte istituzioni religiose hanno chiuso le porte dalla sera alla mattina, trasferendo i servizi su Zoom. Adesso, con la riapertura degli edifici, non sanno quanti fedeli torneranno. Se, come sembra probabile, saranno in pochi, potrebbero intensificarsi due tendenze evidenti già da prima. Molte organizzazioni religiose si libereranno dei loro immobili sottoutilizzati. E un numero maggiore di chiese si fonderà insieme.

I gusti dei consumatori
Già da tempo gli economisti analizzano i gruppi religiosi come se fossero aziende. Nel 1776 lo scozzese Adam Smith sosteneva nel libro La ricchezza delle nazioni che le chiese sono imprese simili alle macellerie, ai forni o ai birrifici. In un mercato libero e competitivo, dove fanno affidamento sulle donazioni e i volontari per far quadrare i conti, il clero deve agire con “zelo” e “industriosità” per riempire i banchi. Fusioni, acquisizioni e bancarotte sono inevitabili.

Oggi il mercato della religione è in continuo cambiamento, forse più che in passato. Dal lato della domanda, le chiese nel mondo occidentale stanno soffrendo gli effetti della secolarizzazione globale cominciata molto prima della pandemia.

Perfino negli Stati Uniti, l’esempio più lampante di un paese ricco che ha prosperato accompagnato dalla religione (secondo alcuni grazie a essa), la percentuale di cittadini che si definiscono cristiani è scesa dall’82 per cento nel 2000 al 75 per cento nel 2020. Secondo l’ultimo sondaggio della World values survey, una rete globale con sede in Austria, circa il 30 per cento degli statunitensi dichiara di partecipare a un servizio religioso almeno una volta alla settimana. È parecchio se messo a confronto con altri paesi ricchi. Il dato però è in costante calo dall’inizio del millennio, quando era del 45 per cento.

La pandemia ha spinto le chiese di tutto il mondo a innovare

Dal lato dell’offerta, la competizione tende a essere feroce dove i governi non impongono la religione che le persone dovrebbero seguire. Secondo John Gordon Melton della Baylor university, in Texas, negli Stati Unitici esistono circa 1.200 denominazioni cristiane oltre a un gran numero di altre fedi. Per corteggiare le loro congregazioni, devono sforzarsi di rendere attraente la frequentazione della chiesa. Secondo un sondaggio di Gallup, tre quarti degli statunitensi dichiarano che la musica è un fattore importante; l’85 per cento è attirato dalle attività sociali. Come afferma Roger Fink, docente alla Pennsylvania state university, la chiave del pluralismo non è la presenza di “più religioni” ma il fatto che queste rispondano ai gusti dei consumatori.

Far quadrare i conti
La pandemia ha spinto le chiese di tutto il mondo a innovare. Il Milton Keynes christian centre nel Regno Unito, per esempio, ha sviluppato corsi di educazione religiosa e gruppi di preghiera sia online sia in presenza. Sostiene un banco alimentare e ha aperto una “camera sensoriale” (“uno spazio calmo e rilassante”) per i bambini con difficoltà di apprendimento. “Le chiese devono rivedere le strategie con cui esercitano il loro ministero per assicurarsi di essere in sintonia con i cambiamenti nella nostra cultura di oggi”, afferma Tony Morgan, fondatore di The unstuck group, un’azienda di consulenza ecclesiastica con sede ad Atlanta che dà consigli ai parroci del Milton Keynes.

Berlino, Germania, 24 dicembre 2020. La messa in scena della natività in un campo da tennis. (Hannibal Hanschke, Reuters/Contrasto)

Molte chiese però non sono riuscite a tenere il passo. Il loro clero non si è spostato online durante il lockdown, o per assenza di tecnologia o perché non amavano particolarmente l’idea. Alcuni sono stati lenti a riaprire. Nel frattempo la diretta dei servizi religiosi ha reso più facile per i fedeli “saltare da una chiesa all’altra”. In un sondaggio condotto nel 2020 tra cristiani praticanti negli Stati Uniti dal Barna group, che fa ricerca in tutto il mondo sulle religioni, il 14 per cento ha cambiato chiesa, il 18 per cento frequentava più di una chiesa, il 35 per cento frequentava solo la chiesa di riferimento prima della pandemia e il 32 per cento aveva smesso completamente di andare in chiesa.

Un obiettivo importante per qualsiasi chiesa, che sia o meno in difficoltà, è far quadrare i conti e oggi questo significa invariabilmente rivedere il portfolio delle proprietà immobiliari. La religione organizzata affronta gli stessi problemi dei proprietari di centri commerciali e uffici che si svuotano mano a mano che le attività si spostano online. Tenere duro e assistere alla progressiva riduzione dei partecipanti? E altrimenti come potrebbero ripensare le loro proprietà?

Buttarsi sugli immobili
Per secoli le religioni hanno accumulato ricchezze terrene sotto forma di proprietà. Il Vaticano possiede migliaia di edifici, alcuni nelle zone più eleganti di Londra e Parigi. La chiesa di Scientology possiede immobili situati in strade esclusive di Hollywood il cui valore si aggirerebbe attorno ai 400 milioni di dollari, un castello in stile medievale in Sudafrica e una villa del diciottesimo secolo nel Sussex, in Inghilterra. Il Wat Phra Dhammakaya, un tempio di proprietà della più ricca setta buddista della Thailandia, vanta sale di meditazione in tutto il mondo. I possedimenti della Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni, meglio nota come chiesa mormona, sono un mistero; si dice che abbia investimenti negli Stati Uniti per cento miliardi dollari, inclusi allevamenti, un parco a tema alle Hawaii e un centro commerciale nei pressi del suo Salt Lake temple, nello Utah. Anche istituzioni religiose più piccole dipendono dalle proprietà immobiliari per il loro benessere terreno. Templi, sinagoghe e moschee guardano con attenzione all’aumento dei prezzi nel settore immobiliare.

Questo è diventato ancora più importante con il declino della pratica religiosa formale e il conseguente declino delle donazioni. Nell’ultimo decennio la chiesa nel Regno Unito ha chiuso i suoi edifici a un ritmo di più di duecento ogni anno. Altre centinaia potrebbero essere venduti o demoliti nei prossimi anni. Anche negli Stati Uniti decine di migliaia di edifici rischiano la stessa fine. Negli ultimi due decenni è stato chiuso quasi un terzo delle sinagoghe statunitensi.

Internet è stata al tempo stesso una benedizione e una maledizione

La chiesa di St. Mary a Berlino, una grande struttura gotica in mattoni rossi, riflette questa tendenza. È piena di affreschi e bassorilievi in pietra antichi di secoli. I banchi però sono vuoti. La congregazione si va assottigliando dalla seconda guerra mondiale. Secondo il suo pastore luterano, Gregor Hohberg, i giovani berlinesi hanno ancora “bisogni religiosi” ma li riempiono con lezioni di yoga e gruppi di meditazione. L’opinione pubblica, continua, non capisce che la chiesa accoglie le famiglie gay e che tra i pastori ci sono molte donne. Secondo padre Hohberg, la maggioranza dei tedeschi ritiene la chiesa ormai fuori moda.
Nel frattempo in tutto il mondo, con l’aumento dei prezzi, bollette e interventi di manutenzione urgente stanno diventando proibitivi. La chiesa d’Inghilterra dichiara che nei prossimi cinque anni avrà bisogno di un miliardo di sterline (circa 1,2 miliardi di euro) – ossia oltre sette volte le entrate registrate nel 2020 – per le riparazioni. Negli ultimi trent’anni le chiese inglesi hanno chiuso a un ritmo preoccupante. Negli Stati Uniti le spese legate agli edifici rappresentano più di un quarto dei bilanci delle chiese. Eppure si stima che le chiese in tutto il paese dispongano dell’80 per cento di spazio in più del necessario.

Anche molte moschee sono in difficoltà, soprattutto in occidente. Sebbene spesso attraggano più fedeli rispetto a chiese ben finanziate, i loro bilanci annuali, stimati in media sui 70mila dollari all’anno per moschea negli Stati Uniti, sono spesso troppo esigui per mantenere gli edifici in buone condizioni.

Internet è stata al tempo stesso una benedizione e una maledizione. Si stima che un sermone virtuale dell’arcivescovo di Canterbury nel 2020 sia stato ascoltato da cinque milioni di persone, ossia più del quintuplo del numero di persone che andavano in chiesa ogni settimana nel Regno Unito prima della pandemia. Nonostante ciò, la partecipazione online ha un prezzo. Se i credenti smettono di frequentarli, gli antichi edifici rischiano di diventare obsoleti.

Ecco perché i gruppi religiosi stanno vendendo le loro proprietà a un ritmo più elevato rispetto a prima, o stanno cercando nuovi modi per usarli. I leader religiosi che aspirano a un posto in paradiso stanno imparando ad adattarsi vendendo o affittando beni immobili sulla Terra, dove tignola e ruggine consumano. I testimoni di Geova, che vantano nove milioni di fedeli in tutto il mondo, hanno venduto la loro sede nel Regno Unito, dove stampavano i volantini e la rivista Watchtower (Torre di guardia). Hillsong, una megachiesa australiana che ogni settimana ha 150mila praticanti in trenta paesi, prende in affitto teatri, cinema e altre strutture per le funzioni domenicali.

Tuttavia separarsi da una proprietà sacra può essere difficile. Nel 2020 i supervisori del famoso tempio indù di Venkateswara di Tirumala, nello stato indiano dell’Andhra Pradesh, sono stati definiti “antindù” per aver cercato di vendere all’asta decine di proprietà “non vitali” che erano state donate dai fedeli. Sono stati costretti ad abbandonare l’idea.

Mettersi in gioco o sparire
Si sta diffondendo un altro approccio più radicale a questo genere di problemi: se la tua chiesa non può prosperare da sola, uniscila a un’altra. Qualche mese fa a Jim Tomberlin, un pastore divenuto consulente, è stato chiesto un parere da una chiesa nei pressi di Detroit, Michigan, in gravi difficoltà. La sua congregazione contava appena cinquanta persone e sulla sua proprietà gravava un mutuo di 450mila dollari. I suoi leader vorrebbero unirsi a un’altra parrocchia a 15 minuti di auto, che accoglie un gregge di mille fedeli e ha un bilancio in salute. Come molti altri in una situazione simile, i pesci piccoli hanno chiesto a Tomberlin di mediare. “Riconoscono che l’alternativa alla fusione è la morte”, afferma senza troppi giri di parole. La tendenza alla fusione tra chiese è cominciata prima del covid, ma il ritmo potrebbe accelerare. A stimolarla non ci sono solo ragioni teologiche, ma anche amministrative, con bilanci che si riducono e pastori che vanno in pensione. Il consolidamento di questa tendenza sta avvenendo tra chiese di rito cattolico, tra sinagoghe e anche all’interno di altre religioni. Ma è particolarmente comune tra le chiese protestanti dominanti negli Stati Uniti.

Come in qualsiasi azienda, quando due chiese si mettono insieme i loro leader possono avere scontri, i cambiamenti culturali possono far allontanare i fedeli e le finanze congiunte non sempre funzionano. Nelle fusioni tra chiese è probabile che quella più debole perda fedeli. Secondo un sondaggio condotto nel 2019 tra circa mille leader religiosi che nell’ultimo decennio avevano affrontato una fusione, un quinto circa delle chiese più piccole perde più del 40 per cento della sua congregazione nel giro di un anno dalla fusione.

Ma sono anche spuntate circa 1.750 “megachiese” protestanti con più di duemila frequentatori abituali e bilanci multimilionari, alcune a seguito di fusioni. Alcune hanno molte sedi. Secondo Warren Bird, un pastore statunitense esperto di megachiese, una buona fusione tra parrocchie è simile a un matrimonio ben riuscito. Ciascun partner deve portare in dote qualcosa per far funzionare l’accordo, ma una chiesa in difficoltà che si mette assieme a una che invece se la cava bene potrebbe semplicemente essere inghiottita da quest’ultima.

Gli economisti non sono i soli a pensare che la competizione religiosa sia salutare. “Se in Inghilterra ci fosse una sola religione”, sosteneva lo scrittore francese Voltaire negli anni trenta del diciottesimo secolo, “ci sarebbe da temere il dispotismo, se ce ne fossero due, si taglierebbero la gola; ma ce ne sono trenta, e vivono in pace e felici”. Un po’ troppo ottimista forse. Ma il virus ha sicuramente indotto le istituzioni divine a fare il punto della situazione sulle loro risorse commerciali oltre a quelle spirituali.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.

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