25 marzo 2022 13:11

La folla era più o meno quella che si può trovare nel Leidseplein, ad Amsterdam, nei pressi del Bulldog palace, famoso coffee shop dove si può fumare marijuana. Il 13 marzo decine di manifestanti – ragazzi goffi, coppie di mezza età e attempati hippy – sono scesi in piazza per sostenere il Forum per la democrazia (Fvd), un partito populista di destra secondo cui il covid-19 è una messinscena e l’invasione dell’Ucraina è colpa dell’occidente. Un dj sparava musica elettronica da un rimorchio addobbato con manifesti di Thierry Baudet, leader dell’Fvd, un euroscettico dall’aspetto ricercato con un dottorato in filosofia del diritto. Il partito occupa cinque seggi sui 150 complessivi del parlamento olandese.

A un certo punto sul palco è salito un alleato di Baudet, Willem Engel, istruttore di salsa con i capelli rasta nonché influencer negazionista del covid-19. “Non dobbiamo farci trascinare in una guerra”, ha dichiarato Engel denunciando l’invio in Ucraina di missili anticarro e antiaerei da parte del governo olandese. Poi ha accusato i mezzi d’informazione di alimentare l’odio nei confronti della Russia nello stesso modo in cui i nazisti alimentavano l’odio verso gli ebrei (“Ah, i media”, borbottava con disprezzo una donna tra il pubblico).

In quasi tutti i paesi occidentali esistono gruppi come l’Fvd, formazioni nazional-populiste contrarie all’immigrazione, all’islam, al multiculturalismo, all’Unione europea, alle Nazioni Unite, ai diritti dei gay o dei transgender e al liberalismo in generale, convinte che sia in atto una cospirazione da parte di un’élite globalista. Negli Stati Uniti sono definiti con il termine alt-right, mentre in Europa si parla di destra “identitaria”. Molti gruppi hanno elogiato a più riprese Vladimir Putin, considerandolo un conservatore cristiano o comunque un nemico del globalismo (a metà febbraio Baudet aveva definito Putin “un tizio fantastico che ha ragione sull’aggressione della Nato, l’Unione europea assetata di guerra, il Forum economico mondiale e tutto il resto”). Spesso queste organizzazioni sono legate gruppi di esperti (think-tank) sponsorizzati dalla Russia e ricevono assistenza dai troll online e dai mezzi d’informazione sostenuti dal governo di Mosca.

Momento cruciale
Nel 2016, l’anno del voto sulla Brexit e dell’elezione di Donald Trump, la storia sembrava dalla loro parte, ma da allora i risultati raggiunti da queste organizzazioni sono stati altalenanti. L’invasione dell’Ucraina, evidentemente, per loro rappresenta un momento cruciale. La rabbia nei confronti dell’aggressione russa mette in difficoltà tutti quelli che in passato hanno sostenuto Putin. La guerra ha rafforzato i partiti centristi contro cui competono i populisti e ha riattizzato l’entusiasmo nei confronti dell’internazionalismo liberale e dell’Unione europea. I finanziamenti di Mosca per i think-tank si stanno esaurendo, mentre gli organi della propaganda russa come Rt e Sputnik sono stati espulsi da alcuni paesi ed esclusi da piattaforme come YouTube.

Di conseguenza i politici nazional-populisti sono stati costretti a fare una scelta: trovare un modo per giustificare l’invasione di Putin o condannarla e ammettere di essersi sbagliati. In Europa il dilemma è stato particolarmente imbarazzante per i francesi Marine Le Pen ed Eric Zemmour e per l’italiano Matteo Salvini. Nel 2019 il leader della Lega aveva definito Putin “uno dei migliori uomini di governo […] sulla faccia della terra”. Salvini ha cercato di redimersi sostenendo l’accoglienza dei profughi ucraini, ma non ha esplicitamente condannato l’invasione russa. L’8 marzo, in occasione di una visita nella città polacca di Przemyśl, al confine con l’Ucraina, Salvini è stato umiliato dal sindaco locale, che gli ha presentato una maglietta con l’immagine di Putin simile a quella che l’italiano indossava in una foto sulla piazza Rossa scattata nel 2014.

Per gli esponenti della destra vicini a Putin in Europa occidentale la guerra rappresenta un problema politico, per quelli dell’Europa centrale e orientale la questione è pratica: la Russia infatti li sostiene economicamente

Le Pen, dopo aver sostenuto che l’occidente avrebbe dovuto accettare l’annessione della Crimea e aver ricevuto nel 2014 un prestito da nove milioni di euro da una banca russa per la sua campagna elettorale, si prepara ad affrontare le elezioni presidenziali francesi del 10 e 24 aprile. I mezzi d’informazione l’hanno attaccata duramente per un pamphlet pubblicato in passato che conteneva una sua foto mentre stringeva le mani di Putin, e da allora le leader del Front national ha condannato l’invasione dell’Ucraina e ha ammesso di aver cambiato idea sul presidente russo, che oggi definisce “autoritario”.

Dal punto di vista elettorale la mossa sembra aver funzionato: Le Pen non ha perso terreno nei sondaggi e si mantiene attorno al 17 per cento. Zemmur, rivale di Le Pen e ancora più vicino all’estrema destra dello spettro politico, incolpa parzialmente la Nato per il conflitto in corso, e dall’inizio dell’invasione ha registrato un forte calo nei sondaggi, passando dal 15 al 12 per cento. L’invasione ha rafforzato le possibilità di vittoria del presidente in carica, Emmanuel Macron (secondo le previsioni dell’Economist Macron è nettamente favorito).

Il partito tedesco Alternativa per la Germania (Afd) deve affrontare un problema ancora più spinoso. La sua base elettorale, infatti, si trova nell’ex Germania est, dove gli elettori si sentono più vicini alla Russia rispetto ai tedeschi occidentali. Inoltre l’Afd ottiene molti voti tra i tedeschi che vivevano in Unione Sovietica e si sono trasferiti in Germania dopo il 1991. Gran parte di questi elettori parla russo e segue i mezzi d’informazione statali russi. Alice Weidel, leader dei parlamentari di Afd, ha mantenuto una posizione ambigua, criticando la Russia per l’invasione ma accusando anche l’occidente di aver illuso l’Ucraina a proposito di un suo ingresso nella Nato. Weidel è apparsa chiaramente in difficoltà quando ha dovuto affrontare l’argomento.

Dall’Ungheria ai Balcani agli Stati Uniti
Se per gli esponenti della destra vicini a Putin in Europa occidentale la guerra rappresenta solo un problema politico, per quelli dell’Europa centrale e orientale la questione è assolutamente pratica: la Russia, infatti, li sostiene economicamente. Il primo ministro ungherese Viktor Orbán è un nazional-populista che come Putin sostiene di voler difendere l’Europa cristiana contro un complotto liberale globale. La sua manovra per ottenere il controllo dei tribunali e dei mezzi d’informazione è stata descritta come una versione “morbida” del putinismo. Nel 2014 Orbán ha cercato di smorzare le sanzioni dell’Unione europea dopo l’annessione russa della Crimea. L’amicizia tra lui e Putin ha regalato all’Ungheria forti sconti sul gas russo e miliardi di dollari per realizzare due nuovi reattori nell’unica centrale nucleare del paese, di fabbricazione sovietica. Secondo Anton Bendarjevskiy, del think-tank di Budapest Danube institute, vicino al governo, le considerazioni economiche (e non certo l’ideologia) sono il principale motivo per cui oggi Orbán si oppone alle sanzioni dell’Unione contro l’energia russa.

Gli elettori repubblicani accusano la Russia per la guerra tanto quanto quelli democratici, e la critica rivolta a Joe Biden è più che altro quella di non aver inviato abbastanza armi

I legami con Mosca sono profondi anche nei Balcani. La Serbia ha potuto contare sull’appoggio della Russia fin dalla guerra in Kosovo del 1999. Il governo populista di estrema destra di Belgrado somiglia molto a quello guidato da Putin, e nel 2021 ha firmato un accordo per la fornitura di gas russo a prezzi scontati. Belgrado si rifiuta di imporre sanzioni a Mosca, mentre i mezzi d’informazione vicini al governo ripetono la propaganda infondata secondo cui gli ucraini avrebbero commesso un genocidio contro la popolazione russofona. In questo caso bisogna tenere conto anche di vecchi rancori, sottolinea Nermina Kuloglija, giornalista di Sarajevo: i nazionalisti serbi, che non hanno mai accettato l’accusa di genocidio ai danni dei musulmani di Bosnia negli anni novanta, sostengono le tesi russe anche per “accusare l’occidente di usare due pesi e due misure”. Tuttavia la scelta di schierarsi dalla parte di Mosca cancellerebbe ogni possibilità di ravvivare il processo di adesione della Serbia all’Unione europea, bloccato da tempo.

Per i sostenitori di Putin dall’altra parte dell’oceano la guerra in Ucraina è stata una catastrofe politica. Il 22 febbraio Trump, stranamente rispettoso nei confronti del leader russo durante tutto il corso della sua presidenza, ha definito “geniale” il riconoscimento dell’indipendenza del Donbass, un’esternazione che non è stata apprezzata nemmeno dai suoi sostenitori. Dopo l’invasione l’ex presidente ha smorzato i toni, ma continua a tessere le lodi di Putin, che recentemente ha definito un uomo “intelligente”.

In alcune frange della destra populista degli Stati Uniti questo approccio è ancora apprezzato. Il 26 febbraio, in occasione di un incontro del movimento di estrema destra America first political action, la folla ha scandito il nome di Putin. I personaggi di spicco della destra alternativa come il presentatore televisivo Tucker Carlson, l’autrice di podcast Candace Owens e il parlamentare repubblicano Madison Cawthorn hanno negato le colpe di Putin per la guerra e criticato l’invio di armi in Ucraina da parte del governo statunitense. Alcuni usano Twitter per celebrare la potenza della tecnologia militare russa o per diffondere la propaganda del Cremlino sulla crescita del “razzismo” antirusso in occidente.

Queste tendenze sono però osteggiate da gran parte della destra tradizionale. Diversi sondaggi condotti questo mese indicano che gli elettori repubblicani accusano la Russia per la guerra tanto quanto quelli democratici, e la critica rivolta a Joe Biden è più che altro quella di non aver inviato abbastanza armi. I repubblicani conservatori sono più inclini dei moderati a impegnarsi maggiormente per aiutare l’Ucraina. In questo senso i populisti, con la loro posizione ambigua in merito alla guerra, stanno rafforzando i politici repubblicani che hanno timidamente cominciato a sfidare il dominio di Trump.

Fine di un’epoca
Per alcuni nazional-populisti la guerra in Ucraina è un problema assolutamente gestibile. Orbán ha smesso di vantare i suoi rapporti con Putin e ha accettato con riluttanza le sanzioni dell’Unione. Con le elezioni alle porte (il 3 aprile) il primo ministro sta basando la sua campagna elettorale sulla volontà di tenere l’Ungheria fuori della guerra e sottolinea che il paese deve evitare di essere strumentalizzato dalle grandi potenze come “un pezzo sulla scacchiera”. Orbán può contare su un controllo quesi totale dei mezzi d’informazione ungheresi, dunque il suo messaggio sta funzionando. Il partito spagnolo Vox ha rapidamente condannato l’invasione dell’Ucraina proclamandosi favorevole all’accoglienza dei profughi ucraini (ma naturalmente non di quelli musulmani) e accusando la coalizione di sinistra al governo di essere in combutta con Putin.

Per altri populisti la guerra è semplicemente troppo lontana. Il presidente populista del Brasile Jair Bolsonaro non è stato particolarmente penalizzato dalla scelta di fare la sua prima visita a Mosca a metà febbraio. Oggi Bolsonaro vorrebbe sfruttare le sanzioni contro la Russia per allentare le restrizioni sull’attività mineraria nel suo paese. Infine in buona posizione troviamo i populisti che hanno mantenuto fin dall’inizio una posizione anti Putin, come il partito al governo in Polonia Legge e giustizia. Varsavia potrebbe addirittura trarre vantaggio dalla solidarietà in tempo di guerra, in quanto l’Unione europea potrebbe allentare la pressione a proposito del tentativo del governo polacco di controllare i tribunali.

In generale è probabile che l’invasione di Putin abbia messo fine all’idea di una destra alternativa globale di cui il presidente russo sarebbe stato uno dei leader. Cinque anni fa gli statunitensi temevano che la propaganda online decisiva per la vittoria di Trump fosse partita dalle fabbriche di troll di San Pietroburgo. I conservatori cristiani occidentali organizzavano conferenze con gruppi legati alla chiesa ortodossa per criticare “l’ideologia gender”. In quel momento l’idea di un movimento nazional-populista unificato contro il liberalismo occidentale, che avrebbe collegato Mosca a Washington passando per Budapest, appariva preoccupantemente plausibile.

Ora, invece, quell’idea sembra ormai superata. La maggior parte dei conservatori statunitensi ed europei prova orrore davanti all’invasione dell’Ucraina. Inoltre la Russia, colpita dalle sanzioni, non ha i mezzi per continuare a sostenere una destra identitaria internazionale. Già prima della guerra, tra l’altro, questo sforzo era stato ridimensionato, e i think-tank russi sono in silenzio da anni. “Ci sono stati molti incontri e congressi, ma nessuno ha mai presentato una proposta capace di creare un fronte unito”, spiega Anton Shekhovtsov, esperto di questioni russe e di estrema destra della Free Russia foundation.

Ma torniamo all’Fvd di Baudet. Oggi il partito si ritrova isolato, perché tutte le altre formazioni nazional-populiste olandesi hanno condannato l’invasione dell’Ucraina. Curiosamente l’Fvd è stato fondato, nell’anno di grazia dell’estrema destra 2016, per promuovere un referendum olandese contro l’accordo di associazione tra l’Ucraina e l’Unione europea. Il partito aveva già cominciato a disgregarsi nel 2020, quando tre parlamentari erano usciti dai ranghi perché convinti che Baudet stesse diventando un fascista. Naturalmente i sostenitori dell’Fvd hanno una spiegazione diversa per quella scissione. Secondo Engel “c’è stato un golpe all’interno del partito”, guidato da agenti dei servizi segreti olandesi nell’ambito del complesso militare-industriale di cui aveva parlato Dwight Eisenhower. Fa tutto parte del piano, accusa Engel.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.

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