06 maggio 2022 16:02

Le ingombranti tute spaziali di oggi pesano (o, per i più pedanti, hanno una massa di) quasi un terzo in più rispetto a quelle indossate dagli astronauti dell’Apollo 11 che hanno camminato sulla Luna negli anni sessanta e settanta. A complicare ulteriormente le cose, la caduta libera dell’orbita non gode degli effetti attenuanti sulla prima e la terza legge di Newton sul moto (gli oggetti perseverano in uno stato di moto a meno di non subire l’azione di una forza, e ogni azione ha come risultato un’azione uguale e contraria) offerti dal campo gravitazionale e dalla superficie solida della Luna. Gli astronauti che passeggiano nello spazio devono perciò pensare con molta più attenzione alle conseguenze delle loro azioni rispetto a quelli che passeggiano sulla Luna.

A ciò si aggiunga il fatto che la maggior parte dei sistemi usati nelle odierne tute spaziali sono stati progettati all’inizio degli anni ottanta. Un periodo sufficientemente lungo a far emergere i difetti (per esempio nel 2013 un astronauta italiano nella Stazione spaziale internazionale –la Iss – è quasi annegato quando nel suo casco si è accumulato un litro di acqua di raffreddamento). Se si aggiunge il fatto che la Nasa spera di riportare gli astronauti sulla Luna entro la fine di questo decennio, è evidente la necessità di un aggiornamento. La Nasa ha un lungo elenco di caratteristiche che vorrebbe modificare o aggiungere. Tuttavia, secondo il direttore delle attività extraveicolari dell’agenzia Chris Hansen, l’obiettivo immediato è lo sviluppo di tute che consentano molti più movimenti corporei rispetto a quelle rigide che, per usare le sue parole, facevano sì che gli astronauti dell’Apollo a passeggio sulla Luna “se ne andassero in giro saltellando come conigli e cadendo di continuo”.

Su misura
La ricerca di nuovi progetti di tute spaziali lanciata dalla Nasa non ha però dato grandi risultati. Nell’agosto 2021 Paul Martin, l’ispettore generale dell’agenzia, ha concluso che 14 anni e 420 milioni di dollari sono stati impiegati senza grossi risultati. Martin ha inoltre detto che, nonostante la Nasa abbia intenzione di raddoppiare quella cifra nei prossimi anni, non produrrà comunque tute spaziali in tempo per l’allunaggio previsto per il 2024 (e attualmente rinviato al 2025). E dunque, facendo ancora una volta tesoro di errori che a questo punto dovrebbero aver davvero insegnato qualcosa, l’agenzia sta commissionando la progettazione delle tute spaziali al settore privato. L’idea è quella di ottenere qualcosa che possa essere usato sia in orbita sia sulla superficie lunare. Il vincitore della gara sarà annunciato a maggio.

Come previsto dalle indicazioni del dottor Hansen, un importante criterio per il successo in questa gara sarà la flessibilità della tuta spaziale. Una delle concorrenti è Astro, una tuta proposta da un trio di aziende: la Collins aerospace di Charlotte, North Carolina, la Ilc Dover di Newark, Delaware e la Oceaneering di Houston, Texas. Astro usa molto il vectran, una fibra sintetica più resistente del kevlar, impiegato per gli indumenti antiproiettile. Il vectran è realizzato con un polimero a cristalli liquidi che conferisce sia la forza sia la flessibilità necessarie.

Chi indossa una tuta di questo tipo dovrebbe essere in grado di stendere le braccia verso l’alto e chinarsi verso il basso, gesti che sarebbero impossibili con le tute spaziali di oggi. Secondo Dan Burbank, ex astronauta che ha contribuito ad assemblare l’Iss in orbita e che adesso fa il tecnologo alla Collins, gli astronauti potrebbero perfino fare dei piegamenti, almeno quando sono ancorati dalla forza di gravità alla superficie terrestre.

Chi mette in discussione la necessità stessa di tute spaziali propone delle astronavi in miniatura equipaggiate con propulsori e braccia robotiche

Una versione di Astro progettata per le passeggiate lunari consentirebbe marce di dieci chilometri, una distanza che supera di molto quelle consentite agli astronauti dell’Apollo. Questo kit di escursioni lunari sarebbe equipaggiato con stivali speciali e un display che traccia gli spostamenti posizionato sullo schermo protettivo frontale per mostrare a chi lo indossa dove è stato e, cosa fondamentale, come tornare indietro.

Per quanto riguarda le passeggiate spaziali nell’orbita terrestre, tuttavia, non sono in pochi a mettere in discussione la necessità stessa di tute spaziali. Propongono invece delle astronavi in miniatura equipaggiate con propulsori e braccia robotiche. La Genesis engineering solutions, un’azienda del Maryland, sta percorrendo questa strada con quella che definisce “astronave per una sola persona” (single-person spacecraft, sps). I propulsori usano azoto compresso, anche se in emergenza possono attingere ai serbatoi d’aria dell’astronave. Le braccia erano state in origine progettate per disinnescare delle bombe, perciò sono molto più abili rispetto alla mano guantata di un astronauta; possono essere controllate dagli astronauti che camminano nello spazio o da un operatore che agisce da remoto. Se tutto andrà bene, le sps saranno usate sulla Orbital reef, una stazione spaziale commerciale costruita da alcune aziende – tra cui la Blue origin e la Sierra space – che dovrebbe essere lanciata alla fine degli anni venti.

Diminuire i rischi e i costi
Secondo la Genesis, la sps offre diversi vantaggi rispetto alle tute spaziali tradizionali. Tanto per cominciare, non servono camere di equilibrio per consentire l’entrata e l’uscita da una stazione spaziale. La navicella si aggancia direttamente alla stazione, con cui condivide l’aria fino a che non si chiudono gli sportelli che le separano. Questo vuol dire che un pilota può infilarsi e uscire da una sps senza grossi problemi. Al contrario, perché un astronauta possa uscire nello spazio è necessario svuotare una camera di equilibrio e poi riempirla di nuovo per farlo rientrare. Poiché lo svuotamento non è mai del tutto efficiente, è inevitabile che ci siano delle perdite di parte della scorta di aria di una stazione.

Un’altra differenza fondamentale è che un’astronave può operare a pressione atmosferica. Tuttavia, pressurizzare così tanto una tuta ne aumenta la rigidità e rende in particolare i suoi guanti talmente rigidi da essere inutilizzabili per compiti manuali. La pressione interna a una tuta spaziale viene perciò mantenuta normalmente a circa un terzo di un’atmosfera. In questo modo però non ci sarebbe ossigeno sufficiente a far respirare un astronauta se si usasse aria normale, perciò viene impiegato l’ossigeno puro. Una conseguenza di questo calo di pressione è il rischio per l’astronauta di incorrere in un malessere da decompressione: l’azoto emerge dal flusso sanguigno in bolle dolorose e pericolose. Dunque, prima di indossare la tuta gli astronauti che escono nello spazio devono sottoporsi alla cosiddetta pre-ossigenazione con ossigeno puro per depurare il sangue dall’azoto. Un’atmosfera con ossigeno puro determina un pericolo di incendio. E non si tratta di un rischio teorico. Tre astronauti dell’Apollo sono stati uccisi dal fuoco in un test a terra nel 1967 perché la loro capsula conteneva un’atmosfera di questo tipo.

Le tute spaziali presentano un terzo rischio per la sicurezza. Lo spiega Brand Griffin, che dirige il progetto della sps alla Genesis. La schermatura su una sps offre protezione contro detriti e micro meteoroidi che si muovono velocemente e che potrebbero perforare una tuta. Se questo dovesse accadere, il vuoto dello spazio determinerebbe la vaporizzazione dei fluidi corporei dell’astronauta. E un altro vantaggio di una navicella è che, se un pilota per qualche ragione non potesse muoversi, controllare da remoto i suoi propulsori e riagganciarlo all’astronave madre sarebbe più facile che riportare nella camera di equilibrio un astronauta uscito nello spazio.

Lo svantaggio di una navicella spaziale in miniatura è il costo. Stando a quanto dice la Genesis, una sps costerà più o meno 70 milioni di dollari, circa il quadruplo di una tuta spaziale. Una spesa iniziale così alta potrebbe però essere compensata da costi di manutenzione più bassi. Una singola passeggiata nello spazio richiede circa 63 ore di lavoro a bordo della Iss, senza contare l’escursione stessa. Tra le altre cose, bisogna adattare una tuta all’astronauta che la indosserà (visto che non sono articoli fatti su misura), poi bisogna contare il tempo necessario a indossarla e toglierla e infine sterilizzare l’interno dopo ogni singolo utilizzo. Per avere una vaga idea di quanto costi tutto questo, teniamo conto che la tariffa per i servizi di un astronauta della Nasa sulla Iss è di 130mila dollari all’ora. Secondo la Blue origin, l’anima dietro la Orbital reef, una volta considerati anche questi costi, una sps risulterà l’opzione più economica.

Le passeggiate nello spazio in tuta sono comunque talmente pericolose che la Nasa tende a scoraggiare gli operatori di stazioni spaziali commerciali in progettazione come Orbital reef di intraprenderle. Per quanto riguarda i turisti dello spazio, poi, le uscite fuori dei veicoli sono sempre state escluse, a prescindere da quanto potrebbe essere stupefacente l’esperienza. Tutto questo potrebbe cambiare con la sps. Ne è convinto Brent Sherwood, a capo dei programmi di sviluppo avanzato della Blue origin, che prevede escursioni “a prova di turista” e automatizzate incluse nelle proposte di vacanze nello spazio.

Anche se la sps dovesse funzionare come previsto, però, le tute spaziali non smetteranno di essere necessarie. La Gateway, una stazione spaziale internazionale in orbita attorno alla Luna il cui assemblaggio dovrebbe iniziare dopo il novembre 2024, è stata progettata per prevedere uscite nello spazio in tuta, non in sps. La Orbital reef, dal canto suo, consentirà (nonostante lo scetticismo della Nasa) delle passeggiate nello spazio sia in tuta sia con sps. Questo sistema dopotutto deve ancora dimostrarsi valido.

Oltretutto i tecnici al lavoro sulle tute spaziali hanno altre idee in cantiere. La Ilc Dover, per esempio, prevede di semplificare le passeggiate nello spazio in tuta fornendo il supporto vitale attraverso un cordone ombelicale. Secondo Dan Klopp, direttore dello sviluppo commerciale dell’azienda, questo limiterebbe la mobilità ma determinerebbe un notevole taglio nei costi. Anche le postazioni per l’aggancio delle tute, o suitport, sono promettenti. Queste consentirebbero a un astronauta di infilarsi nel retro di una tuta spaziale attaccata all’esterno di un veicolo. Dopo che tuta spaziale e veicolo sono stati sigillati, la tuta potrebbe essere staccata senza la necessità di una camera di equilibrio, come accade con la sps.

Bisogna infine prendere atto dell’interrogativo che aleggia su tutti questi tentativi: con le passeggiate nello spazio o sulla Luna compiute da esseri umani si ottiene effettivamente qualcosa che non si potrebbe ottenere con l’uso di robot (controllati da remoto o del tutto autonomi)? Porsi questo interrogativo significa tuttavia mettere in discussione la ragion d’essere dei voli spaziali con equipaggio. E questo non potrebbe mai accadere, giusto?

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.

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