13 dicembre 2022 16:25

Con i suoi lunghi dreadlock, il suo cappello penzolante e la sua passione per il reggae, Abdallah Ahmed, 31 anni, sa da tempo che il suo stile rasta può costare caro nel suo paese, il Sudan.

Se in Giamaica l’imperatore etiope Hailé Selassié è considerato un messia dai suoi fedeli rasta, in Sudan, paese con una netta maggioranza musulmana, il rastafarianesimo è un movimento più culturale che spirituale.

Sotto il governo del dittatore Omar al Bashir, Ahmed – in arte Max Man – ha subìto la collera della polizia islamica: nel 2017, è stato arrestato mentre cantava a un concerto reggae, accusato di detenere droga e condannato a venti colpi di frusta. All’epoca la polizia non esitava a rasare i dreadlock in pubblico e a prendersela con i rasta perché contravvenivano al rigido codice sull’abbigliamento imposto dal regime.

Porte di nuovo chiuse
Nel 2019, quando l’esercito è stato costretto ad allontanare Al Bashir sotto la pressione delle rivolte, i rasta “erano entusiasti”, ricorda il cantante sudanese. Dopo aver vissuto la loro passione di nascosto durante la dittatura “sono spuntati moltissimi musicisti e artisti”, racconta. Ma quando il generale Abdel Fattah al Burhan, ex comandante dell’esercito di Al Bashir, ha ristabilito il potere militare con il suo golpe, un anno fa, tutte le porte si sono chiuse di nuovo. Tra i 121 manifestanti uccisi durante la repressione, che ancora non accenna a diminuire, si contano numerosi rasta, ricorda Afraa Saad, una regista di 35 anni che sfoggia anche lei dei lunghi dreadlock.

C’è un pregiudizio ben radicato, in Sudan e altrove, secondo cui “chi porta i dreadlock è un drogato o un emarginato”, sottolinea Afraa Saad

I rasta denunciano di essere spesso i primi a essere presi di mira durante le retate che precedono o seguono gli appelli a manifestare, perché sono i più individuabili. E tra questi giovani con i capelli lunghi, tanti ne sono usciti con il cranio rasato dai poliziotti.

Secondo Abdallah Ahmed, i rasta con il loro look atipico sono dei “bersagli”. “Ma ciò non li ha mai convinti a togliersi i dreadlock, alcuni sono morti perché non volevano nascondere di essere rasta”. E così accanto a slogan come “I militari nelle caserme!” e “Il potere ai civili!”, è apparso l’emblematico: “I rasta non muoiono”. Durante sit-in, sfilate o raduni, ovunque si possono vedere bandiere con il volto di Bob Marley, cappelli rosso-verde-gialli e ascoltare canzoni reggae in inglese o arabo.

“Il rastafarianesimo ci insegna che bisogna dire la verità, essere coraggiosi, lottare per i nostri diritti”, spiega Abdallah Ahmed a margine di una rara esposizione d’arte a Khartoum. Eppure, sottolinea Afraa Saad, c’è un pregiudizio ben radicato, in Sudan e altrove, secondo cui “chi porta i dreadlock è un drogato o un emarginato. Spesso, la gente mi chiede come una donna possa portare dei dreadlock, visto che ci sono tante altre pettinature più raccomandabili”, racconta.

Ma per lei portare i dreadlock non è solo una questione estetica. È un messaggio politico. Sotto Al Bashir, le abitudini delle donne erano rigidamente controllate e il loro ruolo nella società era di fatto notevolmente ridotto. In riposta, Afraa Saad ha lasciato crescere i dreadlock: “Sono diventati la mia identità, ciò che mi rappresenta”, assicura.

Salem Abdallah, dieci anni più giovane, ha lasciato crescere i capelli per protestare contro la giunta militare. “E terrò i miei dreadlock fino a che il regime militare non cadrà”, grida, durante una manifestazione contro il colpo di stato.

(Traduzione di Thomas Lemaire)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it