Nelle ultime settimane in Italia si è discusso molto di libertà di scelta delle famiglie, vita nella natura, istruzione pubblica e privata e, mescolando cose diverse, anche di homeschooling e scuole nel bosco. Il dibattito è stato, e continua a essere, infuocato. Ma proviamo a mettere da parte lo scontro e concentriamoci sull’ultimo aspetto, le scuole nel bosco, di cui non ci siamo mai occupati in questa newsletter.
Megan Kenyon ne parla sul New Statesman, in un articolo uscito qualche mese fa. “Oggi è molto più probabile vedere bambini passare i pomeriggi a fissare uno schermo che ad arrampicarsi sugli alberi. Secondo un sondaggio di Save the children, nel Regno Unito solo uno su quattro gioca per strada (due generazioni fa erano tre su quattro)”, scrive. “Eppure s’insiste sempre di più sul contatto con la natura come chiave per stare bene. Anche per questo la crescita delle forest school non sorprende”.
Con il sole o la pioggia
Le forest school arrivano nel Regno Unito nel 1993, ma per anni restano una realtà marginale. Dopo la pandemia di covid-19, però, si moltiplicano e diventano più di duecento. L’idea su cui si basano è semplice: riportare l’apprendimento fuori dall’aula. Senza ritmi o modi imposti, bambine e bambini si arrampicano, imparano a riconoscere piante e fiori, sperimentano intrugli, ascoltano rumori (o il silenzio) e così esplorano, collaborano, cercano soluzioni e diventano più autonomi. Tutto si regge su due pilastri: il gioco libero e il rischio “supportato”, cioè monitorato da adulti. Il metodo è pensato per la fascia 0-6 anni, ma ormai viene adottato nei contesti più diversi.
La scuola (o l’asilo) nel bosco ha una storia relativamente recente. È nata in Danimarca, a Søllerød, negli anni cinquanta da un’intuizione di Ella Flatau, una mamma che ogni giorno passava ore tra gli alberi dietro casa con i suoi quattro figli e quelli dei vicini. La sua scelta incuriosì altri genitori, e insieme crearono un modello, lo Skovbørnehave, che si diffuse abbastanza velocemente nei paesi vicini. In Svezia è stato chiamato I Ur och Skur (dove Ur significa “brutto tempo” e Skur “acquazzone”), in Germania Waldkindergarten.
In Danimarca, e in generale in Scandinavia, questo modello è sostenuto da organizzazioni o reti sul territorio, ma si intreccia soprattutto al Friluftsliv – letteralmente vita (liv) all’aria (lufts) libera (fri) –, una filosofia che promuove uno stile di vita semplice in contatto con la natura. Nel Regno Unito invece, spiega Kenyon, è stato codificato.
Dal 2012 c’è un ente di riferimento (la Forest school association, Fsa), che ha fissato sei princìpi: continuità nel tempo, luoghi poco antropizzati, sviluppo olistico (che tiene conto delle varie dimensioni che contribuiscono a formare l’individuo), imprevedibilità, educatori qualificati e centralità del bambino. Se non rispetta questi criteri, non è una forest school.
Gli asili o le scuole nel bosco rispondono anche a un problema strutturale, la carenza di spazi verdi sicuri. Vale ovviamente per le città, dove traffico e scarsa autonomia limitano i movimenti di bambine e bambini. Ma anche per le aree rurali, penalizzate dalle distanze, da trasporti a singhiozzo e tragitti poco praticabili.
In ogni caso, continua Kenyon, anche se attirano interesse queste iniziative non si trasformano in spunti per ripensare sistemi educativi come quello britannico, che resta ancorato al risultato, alla verifica e al controllo. Per cui passeggiare nel bosco o fare lezione fuori dall’aula continua a essere l’eccezione, non parte integrante della vita scolastica.
Il vero ostacolo, insomma, è culturale. Mark Leather, che tiene corsi sull’istruzione all’aperto alla Marjon university di Plymouth, in Inghilterra, sottolinea che non è un ostacolo da poco. In un articolo pubblicato sul Journal of Outdoor and Environmental Education una decina di anni fa, segnalava che nel passaggio del modello dalla Scandinavia al Regno Unito qualcosa si era “perso nella traduzione”.
Lui indicava tre grandi debolezze. La prima riguarda il concetto di partenza, il Friluftsliv. Se in paesi come la Norvegia o la Svezia il rapporto con la natura è così forte da definire l’identità collettiva, in altri contesti va costruito. E quando diventa un insieme di pratiche importate e adattate rischia di ridursi a una formula impoverita, perdendo il significato originario.
Il secondo problema è che il cuore del metodo – gioco libero, autonomia, imprevedibilità – è anche ciò che spaventa di più. Molti insegnanti fanno fatica a non interferire e confondono il gioco libero con attività guidate, oppure lo liquidano come tempo non produttivo, per cui convincere adulti e istituzioni del loro valore è difficile. In più la riflessione teorica è modesta, o deriva da studi piccoli e spesso poco rigorosi.
Terzo, la “McDonaldizzazione”: il pericolo che forest school diventi un marchio accessibile a pochi, con genitori trattati come “clienti”, percorsi abilitanti troppo brevi e attività standardizzate. Leather criticava la Fsa, perché nel suo ruolo di ente nazionale cristallizza un modello che dovrebbe restare flessibile ed esclude altri approcci ugualmente validi. Se l’esperienza delle forest school è preziosa e può dare un contributo enorme, concludeva, non deve diventare l’unica strada possibile: l’educazione all’aperto può assumere molte forme.
In sintesi, la sfida per pedagogisti, educatori e scuole è più ampia: restituire peso e spazio alla natura nella crescita di bambini e bambine. Se un tempo bastava uscire di casa e andare in un prato, oggi servono progetti strutturati, insegnanti preparati e un cambio di mentalità.
- Se volete leggere qualcosa di più sostanzioso sul tema dell’educazione nella natura in Italia, vi segnalo due libri. Il primo s’intitola Didattica all’aperto. Metodologie e percorsi per insegnanti della scuola primaria (Erickson 2022). È curato da Michela Schenetti (che insegna didattica e pedagogia speciale all’università di Bologna) e raccoglie una trentina di contributi scritti da ricercatori e formatori della Rete nazionale delle scuole che praticano l’educazione all’aperto. Il secondo è La scuola nel bosco (Erickson 2015), di Schenetti, Irene Salvaterra e Benedetta Rossini. Il testo si articola partendo dalla ricerca fatta dalle autrici all’interno dei servizi per l’infanzia e la scuola primaria a Bologna.
- Mentre sul rapporto da costruire e migliorare tra scuola e paesaggio, si è svolto il 4 dicembre presso il dipartimento di architettura dell’università Roma Trevi il convegno “La scuola oltre la scuola per la città della prossimità”. L’evento era legato al progetto “Abitare il paese”, nato nel 2018 dal Consiglio nazionale architetti Ppc e Fondazione Reggio Children. Qui potete consultare il programma della giornata, con le scuole e gli studi di architettura che hanno partecipato, e qui trovate il video con tutti gli interventi.
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