19 luglio 2022 12:37

Una statua monumentale e al contempo elegante, che rappresenta una donna seduta e avvolta da un drappeggio incantevole. Per poterla finalmente ammirare dobbiamo arrivare in fondo alla galleria. Abbiamo giusto il tempo scattare discretamente tre fotografie, poi una collaboratrice di Cervera, una delle più importanti gallerie di antichità di Barcellona, ci fa presente che è severamente proibito immortalare le opere.

Questa scultura è tanto più curiosa se consideriamo che nessun cartello ne precisa l’origine o il prezzo. Dopo qualche minuto un altro responsabile della galleria ci si avvicina e ci spiega che l’opera è in vendita per 150mila euro. “Viene dalla Grecia e risale al quinto secolo avanti Cristo”, si limita a dire. La sua provenienza? “Una collezione privata”. L’archeologo e storico dell’arte Morgan Belzic, componente della missione archeologica francese in Libia che ci ha dato appuntamento a Barcellona, non è dello stesso parere: “Questo oggetto presenta tutte le caratteristiche tecniche ed estetiche dell’arte scultorea della Cirenaica, oggi situata in Libia. Al momento è vietato esportare opere da quel paese. Evidentemente questa è stata trafugata”.

Dopo aver constatato la presenza della scultura nella galleria di Barcellona, Belzic scrive subito insieme ai suoi colleghi un rapporto che viene trasmesso alle autorità spagnole e libiche. L’obiettivo è quello di ottenere il sequestro dell’opera. “Altre tre sculture identiche di donne sedute sono già state sequestrate. Ci mancava questa, che secondo le informazioni in nostro possesso è arrivata in Spagna nel 2014, in piena guerra libica, finendo nella galleria Bagott, situata nella stessa strada della galleria Cervera. Quando gli agenti di polizia si sono presentati per sequestrarla, era già stata venduta”.

Da archeologi a investigatori
Qualche anno dopo la statua è ricomparsa sull’altro lato della strada, nella galleria concorrente. Cosa è successo nel frattempo? “Di solito i galleristi cercano di dare alle opere saccheggiate un certificato della sua storia , per dimostrare che sono già circolate tra i collezionisti e rassicurare i futuri acquirenti. Così possono far salire il prezzo”, spiega Christos Tsirogiannis, professore all’università di Aarhus, in Danimarca, specializzato nel traffico di beni culturali.

Con una provenienza meglio identificata, in futuro la statua della donna seduta potrebbe essere messa all’asta e venduta per milioni di euro. Ma ormai le gallerie e le case d’asta devono affrontare archeologi che lavorano anche come investigatori e segnalatori di frodi.

In Siria il traffico di opere d’arte ha direttamente finanziato l’attività terroristica, e per questo si parla di “antichità insanguinate”

“Gli attori del mercato dell’arte sono responsabili del saccheggio dei siti archeologici. Senza una richiesta elevata non esisterebbe alcun traffico di reperti”, denuncia Belzic. “Un sito saccheggiato è come un libro bruciato. In questo modo si distrugge il futuro della ricerca”. Pascal Butterlin, professore di archeologia orientale all’università Paris 1 Panthéon-Sorbonne, sottolinea che “un oggetto saccheggiato perde l’80 per cento del suo valore scientifico. Ciò che rende interessante un’opera è il suo contesto, la sua funzione, la storia che racconta. Oggi assistiamo a una vera catastrofe del patrimonio culturale”. Il 25 marzo un procedimento per “riciclaggio e complicità in una truffa organizzata” contro Jean-Luc Martinez, ex direttore del Louvre, ha attirato l’attenzione sul traffico illecito di opere d’arte. “Siamo al centro di uno degli ultimi mercati non regolamentati”, spiega l’avvocato e storico dell’arte Pierre Noual, autore di Restitutions. Une histoire culturelle et politique (Restituzioni. Una storia culturale e politica).

Questo circuito ancora estremamente opaco parte di solito dalle regioni più instabili del Medio Oriente, tra le più ricche al mondo da un punto di vista archeologico. Dopo le rivoluzioni arabe il traffico di beni culturali è cresciuto esponenzialmente. L’instabilità politica agevola il saccheggio, tanto più che in molti casi gli scavi sono stati abbandonati dalle missioni archeologiche occidentali per motivi di sicurezza.

Saccheggio su scala industriale
“Possiamo paragonare questo fenomeno alla corsa all’oro: ognuno spera di trovare un giacimento e i siti archeologici sono trattati come miniere a cielo aperto. In pochi anni nel sito archeologico di Mari, in Siria, sono stati rubati più oggetti che nel corso di ottant’anni di scavi. E questo è niente: la grande maggioranza delle opere saccheggiate non è stata ancora messa sul mercato”, spiega Butterlin, che ha guidato la missione archeologica francese a Mari.

L’incremento dell’attività di saccheggio dei siti siriani è legato anche all’ascesa del gruppo Stato islamico. L’organizzazione terrorista ha perfino creato un servizio dedicato specificamente al traffico di antichità: il Diwan al rikaz, che concede i permessi e impone una tassa sulle operazioni di scavo. “Con l’affermazione dello Stato islamico, nel 2014, è partito un processo di industrializzazione del saccheggio. Gli islamisti hanno preso di mira il patrimonio artistico, con alcune contraddizioni: l’organizzazione ha vietato il commercio di idoli ma ha consentito quello di altri oggetti”, aggiunge Butterlin. Il gruppo Stato islamico ha investito in questo settore perché i guadagni sono colossali. In Siria piccole statuette di pietra potevano essere vendute anche a diecimila dollari l’una.

Prima di arrivare nelle gallerie e nelle case d’asta occidentali, le opere passano solitamente per le mani degli intermediari

Il traffico di opere d’arte ha direttamente finanziato l’attività terroristica, e per questo si parla di “antichità insanguinate”. Il commercio ha assunto un’importanza tale da favorire la produzione di falsi. Oggi buona parte della popolazione cerca di trarre profitto da questo traffico. “I saccheggiatori sono molto numerosi, anche perché l’economia del paese sprofonda e la gente cerca fonti di reddito. Ma in Siria esistono anche saccheggiatori professionisti, senza dubbio archeologi provenienti dall’estero. Lo notiamo dalla precisione con cui sono effettuati alcuni scavi”, spiega Butterlin mostrando le immagini satellitari dei siti archeologici.

La Siria non è certo l’unico paese dove si scava illegalmente. Anche la Libia e l’Egitto sono in prima linea, ma lo Yemen è caduto anch’esso vittima di questa attività illecita, come ricorda Jérémie Schiettecatte, ricercatore del Cnrs e specialista del paese: “In Yemen il saccheggio è diventato un fenomeno massiccio. Si verifica nelle regioni più remote e controllate dalle tribù. I saccheggiatori sono pagati una miseria e gli oggetti partono immediatamente per l’estero con la complicità di alti funzionari del governo. Nel 2016 un procuratore ha permesso l’esportazione di seicento oggetti dallo Yemen verso i paesi del Golfo”.

Prima di arrivare nelle gallerie e nelle case d’asta occidentali, le opere passano solitamente per le mani degli intermediari che in molti casi lavorano a Dubai, come il mercante giordano Hussam Zurqieh o l’iraniano Hassan Fazeli. Zurqieh è stato indicato dal rapporto pubblicato nel 2021 dall’Asor (American society of overseas research) come uno dei responsabili dell’esportazione di antichità libiche saccheggiate. Fazeli, invece, è stato accusato nel 2014 di aver fatto trasferire illegalmente alcuni reperti egizi negli Stati Uniti, e un anno più tardi di aver esportato oggetti saccheggiati in Libia verso il Regno Unito.

In alcuni casi le autorità riescono a sequestrare le opere rubate prima che partano per i paesi del Golfo, come accaduto con il sequestro effettuato dagli egiziani a Port Said nel 2011. In quel caso le antichità erano nascoste dentro confezioni di carta igienica.

Parvenza di legalità
In una seconda fase gli intermediari smaltiscono gli oggetti nelle case d’asta e nelle gallerie occidentali. “Di solito passano tra i cinque e i dieci anni prima che un’opera saccheggiata sia messa in vendita. Nel frattempo bisogna tenerla nascosta per mascherarne la provenienza. Spesso viene depositata in un porto franco come quello di Ginevra”, precisa Jérémie Schiettecatte.

Il principio del porto franco è quello di permettere ai collezionisti di conservare opere d’arte al riparo dagli sguardi indiscreti e dalle tasse doganali. Il porto franco di Ginevra, dove si trova oltre un milione di opere d’arte, oggi prova a giocare la carta della trasparenza. Nel novembre 2021 scorso alcuni reperti rubati a Palmira e sequestrati a Ginevra sono stati restituiti alla missione siriana delle Nazioni Unite.

Ma questo “pentimento” non convince Pierre Noual: “La trasparenza riguarda gli oggetti che entrano nel porto franco oggi, non quelli che sono conservati da anni e di cui non si sa nulla. E poi non esiste solo il porto franco di Ginevra”. Strutture simili si trovano anche in Lussemburgo e a Singapore.

Per poter commercializzare le opere, le gallerie d’arte e le case d’asta occidentali devono conferire agli oggetti saccheggiati una parvenza di legalità. “È il paradosso del mercato dell’arte: esistono un aspetto legale e uno illegale, che permette il riciclaggio”, ci spiega Vincent Michel, professore dell’università di Poitiers e specialista nel traffico di beni culturali. Le case d’asta o le gallerie riportano informazioni false sulla provenienza, o in alternativa si mantengono estremamente vaghe. “Tra il 2010 e il 2012 alcune stele rubate in Yemen sono state ritrovate nei cataloghi di vendita di Bergé et associés con un’indicazione piuttosto generica della provenienza (arabia del sud o penisola sudarabica)”, ricorda Schiettecatte.

I cataloghi di vendita di reperti archeologici pubblicati dal 2007 al 2019 da Pierre Bergé et associés (la casa d’aste non ha voluto rispondere alle nostre domande) forniscono informazioni estremamente approssimative: antica collezione K. (Germania), mercato dell’arte inglese… Risalire ai precedenti proprietari risulta impossibile.

Anche quando viene fornito un nome, spesso una ricerca su internet rivela che è presente unicamente sui siti dei… cataloghi di vendita. “I mercanti a volte arrivano a sostenere che gli oggetti provengano dalla loro collezione di famiglia!”, denuncia Belzic. “Le case d’asta si barricano dietro il segreto professionale. Sostengono di voler proteggere la privacy dei loro clienti, ma in realtà è un segreto d’affari. Nel settore regna l’opacità più totale”, aggiunge Noual.

A contrastare questo sistema c’è l’ostinazione di alcuni archeologi che si gettano alla ricerca delle opere saccheggiate. Tsirogiannis ha collaborato a lungo con la polizia greca, e nelle sue ricerche prende di mira le più grandi case d’aste del mondo.

Nel 2017 Sotheby’s, oggi di proprietà di Patrick Drahi, ha messo in vendita una stele funeraria greca indicando come unica provenienza il nome di John Hewett, [che l’avrebbe acquisita] nel 1960. Per una strana coincidenza, la maggior parte delle provenienze indicate dalla casa d’aste è anteriore al 1970, anno in cui è stata firmata la convenzione sul patrimonio dell’Unesco per combattere il traffico illecito di beni culturali.

“Ho riconosciuto la stele perché era presente negli archivi di Gianfranco Becchina, un noto mercante d’arte. Ma non esistevano prove che un tizio di nome John Hewett avesse mai posseduto l’opera…”, racconta Tsirogiannis. Dopo aver inizialmente smentito le affermazioni del ricercatore greco, Sotheby’s ha restituito l’opera alle autorità elleniche. Gli esempi di questo tipo sono innumerevoli. Nel 2009 Tsirogiannis ha ritrovato oggetti appartenenti ai trafficanti d’arte nell’asta della collezione di Yves Saint Laurent e Pierre Bergé, definita “la vendita del secolo”. Il 6 giugno 2013 la storia si è ripetuta con l’asta di Christie’s, di proprietà di François Pinault. La casa d’aste, coinvolta in un gran numero di casi simili, non ha risposto alle nostre domande.

Cancellare i segni del saccheggio
Queste vendite sollevano forti dubbi sul ruolo degli esperti pagati dalle case d’aste. La vicenda del Louvre ha attirato l’attenzione sul nome di Christophe Kunicki, a lungo collaboratore di Bergé et associés. Come la maggior parte dei suoi colleghi, Kunicki è stato formato da Jean-Philippe Mariaud de Serres. Chi sono questi esperti? “Gli archeologi che lavorano sul campo non svolgono mai tale mansione”, risponde con stizza Butterlin, denunciando uno “scarso livello di competenze”. In ogni caso questi esperti formano un tandem inseparabile con i mercanti d’arte.

A volte nelle operazioni di riciclaggio intervengono anche atelier che si occupano del restauro delle opere d’arte. Il loro ruolo è quello di camuffare le opere per nasconderne la reale provenienza. Nel 2013 l’atelier britannico Colin Bowles è stato coinvolto in un’operazione di sequestro a Londra. “Questi restauratori, per esempio, cancellano i segni lasciati dalle zappe durante i saccheggi”, spiega Belzic. “In altri casi l’obiettivo è eliminare elementi che rendono l’opera troppo specifica da un punto di vista archeologico e dunque riconoscibile”.

Perché la giustizia è ancora così titubante davanti all’aumento del traffico di beni culturali?

Dopo aver superato tutte queste tappe, le opere saccheggiate finiscono in mano agli acquirenti, che generalmente sono di due tipi. Da un lato troviamo i privati, che le acquistano per le loro collezioni personali. “Le antichità sono diventate un bene rifugio, come l’oro. La richiesta è superiore all’offerta”, sottolinea Schiettecatte. Oltre all’Europa e al Nordamerica, le collezioni appaiono sempre più spesso anche nei paesi asiatici. Butterlin critica aspramente “il disastro collettivo della presenza di un oggetto archeologico in mostra su un caminetto”.
Dall’altro lato troviamo i musei occidentali, che acquistano regolarmente le opere d’arte in un processo che tuttavia diventa sempre più rischioso… Il 2 giugno cinque opere egiziane del Metropolitan museum di New York, probabilmente provenienti da un saccheggio, sono state sequestrate dalle autorità della città.

La vicenda del Louvre ha evidenziato le carenze del processo di verifica della provenienza delle opere, soprattutto da parte del ministero della cultura. “Il ministero si preoccupa molto di difendere il proprio patrimonio e poco di tutelare quello degli altri paesi”, sottolinea un fine conoscitore del settore. Il nuovo ministro Rima Abdul-Malak ha appena lanciato una missione sul traffico di beni culturali anche per fare il punto sulle procedure di acquisizione.

Qualcuno però ha storto il naso alla notizia che l’iniziativa è stata affidata alla presidente del castello di Fontainebleau, Marie-Christine Labourdette. Nel 2018 il castello ha esposto la collezione Al Thani, di proprietà del cugino dell’emiro del Qatar, che possiede una delle più ricche collezioni di antichità di cui fa parte anche uno stambecco di bronzo che sarebbe uscito illegalmente dallo Yemen.

Perché la giustizia è ancora così titubante davanti all’aumento del traffico di beni culturali? I meccanismi che ne frenano l’attività sono molteplici, a cominciare dalla difficile applicazione della convenzione dell’Unesco. “La convenzione vincola solo i paesi che l’hanno sottoscritta. La Francia l’ha ratificata molto tardi, nel 1997, e bisogna tenere presente che non è retroattiva”, precisa Noual.

Cambiare paradigma
I mercanti d’arte dichiarano di applicare il concetto di due diligence. “Significa che la persona deve preoccuparsi di evitare qualsiasi elemento discutibile in una operazione. In sintesi è un dovere elementare di precauzione, dunque questo concetto fondamentale nella lotta contro il traffico illecito non è legato ad alcuna categoria giuridica precisa”, spiega Noual. L’intero sistema si basa sul principio di buona fede, dietro il quale si trincera anche l’acquirente. Questo implica che spesso le opere non possano essere sequestrate. Belzic ritiene che sia necessario cambiare paradigma. “Dovrebbe spettare alle gallerie d’arte e alle case d’asta dimostrare che gli oggetti non sono stati saccheggiati”.

Il cambiamento dev’essere anche ideologico. I rappresentanti delle gallerie e delle case d’aste non difendono solo l’opacità delle loro pratiche, ma in alcuni casi fanno parte di una forma di neocolonialismo basato sulla tesi che le opere debbano essere custodite in occidente.

In un articolo pubblicato nel 2019 sull’International Journal of Cultural Property, il mercante d’arte newyorchese Randall Hixenbaugh, membro della Confederazione internazionale dei commercianti di opere d’arte, ha dichiarato che “in numerosi paesi archeologicamente ricchi le antichità sono considerate nel migliore dei casi come oggetti da vendere agli stranieri, e nel peggiore come oggetti sacrileghi da distruggere”. Senza scomporsi, Hixenbaugh ha affermato che “un commercio aperto e legittimo di antichità è più che mai necessario per assicurare la conservazione e la diffusione dei beni culturali nel mondo”.

I ricercatori chiedono una mobilitazione politica per invertire questa tendenza. “Bisogna creare un consiglio interministeriale coinvolgendo quattro ministeri: quello degli esteri, quello dell’interno, quello della ricerca e quello della cultura”, propone Belzic. La polizia francese, infatti, non ha mezzi a sufficienza. L’Ocbc (l’Ufficio centrale contro il traffico dei beni culturali) dispone solo di una ventina di agenti, contro i 200 attivi in Italia tra i ranghi dell’arma dei carabinieri.

“Serve una task force europea per garantire la tracciabilità degli oggetti e per individuare i documenti falsi”, chiede Sabine Fourrier, direttrice della Maison de l’Orient et de la Méditerranée. Il mondo universitario è ancora esitante nell’affrontare questo tema. Situata all’incrocio tra archeologia, criminologia e storia delle collezioni, la lotta contro il traffico di beni culturali esula dalle categorie ben definite.

Prima di arrivare all’università di Aarhus, Tsirogiannis è stato ignorato da università prestigiose nel Regno Unito e in Germania. “Non siamo molto ben visti”, ammette. La lotta contro il traffico di opere d’arte passa inevitabilmente dall’azione nelle aree geografiche dove si verificano i saccheggi. “Bisogna sensibilizzare le popolazioni locali a proposito dell’interesse patrimoniale”, sottolinea Schiettecatte. Considerando che spesso si tratta di paesi tra i più poveri del mondo, questo compito può rivelarsi proibitivo.

Il fenomeno tentacolare del saccheggio sembra non avere fine. Ma almeno alcuni sforzi si rivelano efficaci. A Barcellona nel giro di pochi giorni le autorità libiche hanno attivato la procedura per la restituzione della statua [che avevamo trovato nella galleria Cervera]. Grazie all’ostinazione degli archeologi, oggi la donna seduta della Cirenaica si prepara a tornare nella sua terra d’origine.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul sito francese Mediapart.

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