22 ottobre 2021 14:48

Questo articolo è stato pubblicato il 25 marzo 2011 sul numero 890 di Internazionale.

Nel giugno del 2010 ho ricevuto una telefonata da Alan Rusbridger, il direttore del Guardian, che con aria misteriosa mi ha chiesto se c’era un modo per parlare senza il rischio di essere intercettati. Ho dovuto confessargli che no, non avrei saputo da dove cominciare. Al New York Times non abbiamo linee protette o strani aggeggi da spie. Lui mi ha risposto che in tal caso sarebbe stato attento a quello che diceva. E con un gran giro di parole mi ha illustrato la questione: un’organizzazione chiamata Wikileaks, formata da oscuri oppositori del segreto di stato, era entrata in possesso di una grande quantità di comunicazioni riservate del governo degli Stati Uniti. Il capo di Wikileaks, Julian Assange, un ex hacker nato in Australia e senza fissa dimora, aveva offerto al Guardian mezzo milione di dispacci militari provenienti dai campi di battaglia dell’Afghanistan e dell’Iraq. Forse ne sarebbero seguiti altri, tra cui un’enorme mole di cablogrammi diplomatici strettamente confidenziali. Il Guardian suggeriva, per amplificare l’impatto e al tempo stesso distribuire l’onere di maneggiare un simile tesoro, di invitare a questo banchetto esclusivo anche il New York Times. La fonte aveva accettato. La cosa m’interessava?

Sì che m’interessava.

Quello che è successo nei sei mesi successivi mescola l’avventura di dare un senso a un grande archivio segreto con l’impresa molto più banale di riordinare, esaminare e decifrare una montagna di dati. Come se questo non fosse già abbastanza complicato, il progetto coinvolgeva una fonte sfuggente, capricciosa e tendenzialmente manipolatrice, un cast internazionale di giornalisti, squadre di avvocati impegnate a verificare la legalità delle nostre azioni, e una schiera di funzionari governativi che non sapevano bene se collaborare con noi o arrestarci. Alla fine dell’anno la storia di questa gigantesca fuga di notizie faceva discutere più dei documenti pubblicati: tutti si chiedevano se il giornalismo, la diplomazia e la nostra vita stavano cambiando per sempre.

Poco dopo la telefonata di Rusbridger, abbiamo spedito Eric Schmitt, della nostra redazione di Washington, a Londra. ​​Schmitt si occupa da anni di questioni militari e aveva già una certa esperienza di dispacci segreti, inoltre ha ottime capacità di giudizio ed è imperturbabile. Il suo compito era farsi una prima idea del materiale. Era autentico? Di pubblico interesse? Doveva anche farsi illustrare i termini della nostra collaborazione con il Guardian e il settimanale tedesco Der Spiegel, invitato da Assange come terzo commensale al banchetto segreto. Inoltre avrebbe conosciuto il capo di Wikileaks, che alcuni giornalisti del Guardian avevano già incontrato.

Fin dall’inizio lo abbiamo considerato una fonte, non un collaboratore

La prima telefonata di Schmitt da Londra è stata incoraggiante. Per lui non c’era il minimo dubbio che i dispacci dall’Afghanistan fossero autentici. E affascinanti: il diario di una guerra tormentata fin dall’inizio. Tutto, poi, lasciava intendere che altro materiale sarebbe seguito, in particolare alcuni cablogrammi riservati provenienti dall’intera costellazione della diplomazia americana. Wikileaks aveva deciso per il momento di tenerli da parte, per sondare gli effetti di quella prima uscita nel mondo dei mezzi d’informazione ufficiali. Per giorni Schmitt si è rinchiuso in una stanzetta del Guardian a discutere gli aspetti più complessi del progetto: come organizzare e studiare una mole di informazioni così grande; come trasportarla, immagazzinarla e diffonderla in modo sicuro; come permettere ai giornalisti di tre testate così diverse di lavorare fianco a fianco senza compromettere la loro indipendenza; e come riuscire a mantenere la giusta distanza da Julian Assange. Fin dall’inizio abbiamo considerato Assange come una fonte, non un partner o un collaboratore. Ma era chiaro che lui aveva i suoi obiettivi.

All’epoca delle riunioni di Londra, Wikileaks si era già fatta una certa reputazione a livello internazionale. Poco prima che ricevessi la telefonata dal Guardian, il New Yorker aveva pubblicato un lungo e colorito profilo di Assange firmato da Raffi Katchadourian, che aveva assistito di persona alle attività del gruppo. Il colpo più importante messo a segno da Wikileaks fino a quel momento era stata la pubblicazione, nell’aprile del 2010, di un video: un raid compiuto da due elicotteri statunitensi a Baghdad nel 2007, in cui erano morte almeno 18 persone. Alcune delle vittime erano armate, altre sembravano del tutto inoffensive: due lavoravano per l’agenzia Reuters. Il video, accompagnato dai commenti cinici dei militari a bordo dell’elicottero, era raccapricciante e metteva in imbarazzo l’esercito statunitense. Ma nella foga di trasformarlo in un’opera di propaganda antimilitarista, Wikileaks l’aveva pubblicato anche in una versione più corta intitolata Collateral murder, in cui non veniva evidenziata la presenza di un iracheno che trasportava un lanciarazzi.

In tutti i contatti che abbiamo avuto, Assange è sempre stato reticente sulla provenienza dei documenti segreti. Ma la persona sospettata di aver trafugato il video, i dispacci militari e i cablogrammi diplomatici è un soldato scelto dell’esercito statunitense, Bradley Manning, poi arrestato e oggi in isolamento.

Lo zaino di Peter Pan
Al quarto giorno di riunioni londinesi, Assange è entrato ciondolando nell’ufficio del Guardian, con un giorno di ritardo. Era la prima volta che Schmitt lo incontrava. “È alto, sul metro e novantadue, e allampanato, con la pelle chiarissima, gli occhi grigi e una massa di capelli bianchi che balza all’occhio”, mi ha scritto Schmitt. “Era lucidissimo ma molto trasandato, sembrava un barbone, indossava una giacchetta sportiva, chiara e piuttosto sudicia, e dei pantaloni larghi, una maglietta bianca sporca, delle scarpe da ginnastica distrutte e dei calzini bianchi lerci afflosciati intorno alle caviglie. Puzzava come se non si lavasse da giorni”.

Assange si è scrollato dalle spalle un enorme zaino, da cui ha estratto un ammasso di computer portatili, cavi, cellulari, chiavette usb e schede di memoria che contenevano i segreti di Wikileaks.

I giornalisti avevano fatto un lavoro preliminare sui dispacci dall’Afghanistan, organizzando il materiale in un grande foglio di calcolo Excel, per poter passare al setaccio i documenti alla ricerca di notizie interessanti. Mentre lavoravano, avevano notato un’incoerenza: Assange aveva detto che i dispacci andavano dall’inizio del 2004 alla fine del 2009, ma il materiale nel file Excel terminava improvvisamente nell’aprile del 2009. Assange, calandosi subito nel ruolo dello smanettone del gruppo, ha spiegato ai giornalisti che avevano raggiunto il limite di Excel e che dovevano aprire un’altra pagina nel foglio di calcolo. Loro hanno ubbidito, e il resto dei dati si è materializzato: in totale, 92mila rapporti inviati dai campi di battaglia dell’Afghanistan.

Bill Keller, il direttore del New York Times, maggio 2008. (Jonathan Torgovnik, Getty Images)

Con il tempo i giornalisti si sono fatti l’idea che Assange era un tipo intelligente e istruito, con enormi competenze tecnologiche, ma anche arrogante, permaloso, paranoico e stranamente ingenuo. Un giorno, pranzando nella mensa del Guardian, Assange ha raccontato con grande convinzione un aneddoto sull’archivio tedesco in cui sono conservati i documenti della Stasi, l’ex polizia segreta comunista. L’archivio, sosteneva Assange, era stato completamente infiltrato da ex agenti della Stasi che, all’insaputa di tutti, stavano distruggendo i documenti invece di proteggerli. John Goetz, il giornalista dello Spiegel che faceva parte del gruppo e che sulla Stasi ha scritto moltissimi articoli, lo ha ascoltato esterrefatto e gli ha detto che era un’assurdità: alcuni ex dipendenti della Stasi erano stati assunti come guardie, ma i documenti erano ben protetti.

Assange disprezzava apertamente il governo statunitense e si sentiva braccato. In vista di un possibile disastro, si era tutelato distribuendo copie criptate del suo archivio segreto ai suoi sostenitori. Se Wikileaks fosse stato chiuso, o lui fosse stato arrestato, avrebbe divulgato la chiave per decifrare quelle informazioni.

Secondo Schmitt, nonostante la sua magniloquenza e le cupe teorie complottiste, Assange era una sorta di Peter Pan. Una sera, mentre tutti insieme camminavano per strada dopo cena, di colpo si è messo a saltellare in avanti staccando il gruppo. Schmitt e Goetz sono rimasti a guardarlo allibiti. Poi, sempre di colpo, Assange si è fermato e, tornando a sincronizzarsi con il loro passo, ha ripreso la conversazione da dove l’avevano interrotta.

Visibilità
Per il resto della settimana, Schmitt ha lavorato con David Leigh, responsabile delle inchieste del Guardian, Nick Davies, giornalista d’inchiesta della stessa testata, e Goetz, dello Spiegel, per organizzare e selezionare le informazioni. Con l’aiuto delle due migliori menti informatiche del New York Times, Andrew Lehren e Aron Pilhofer, hanno ideato un modo per assemblare il materiale in un database sicuro e facile da consultare. I giornalisti di solito sono competitivi, ma il gruppo ha lavorato bene. Insieme hanno deciso quali argomenti esaminare, scambiandosi poi i risultati delle ricerche. Lo Spiegel si è offerto di fare delle verifiche confrontando i rapporti segreti con i verbali inviati dall’esercito tedesco al parlamento.

Assange ci ha fornito i documenti a condizione che non ne scrivessimo prima delle date scelte da Wikileaks per pubblicare i documenti su un sito accessibile a tutti. I primi ad apparire sarebbero stati i dispacci sull’Afghanistan: avevamo alcune settimane per esaminare il materiale e scrivere i nostri articoli. I documenti sull’Iraq, che erano molti di più, sarebbero usciti in un secondo momento. Nel giornalismo accordi come questo, in cui si stabilisce di non pubblicare le informazioni prima di una certa data, sono ordinaria amministrazione. Tutto, dagli studi delle riviste mediche al bilancio annuale degli Stati Uniti, viene pubblicato in modo controllato. Il vantaggio è che i giornalisti hanno la possibilità di leggere il materiale e rifletterci sopra prima di sottoporlo all’opinione pubblica. Come sicuramente Assange sapeva, questo contribuisce anche a creare una certa suspense e ad amplificare una notizia, soprattutto se viene diffusa contemporaneamente da più testate. Il vincolo delle date era l’unica condizione che Wikileaks ci imponeva: potevamo scrivere quello che volevamo sul materiale. Molto tempo dopo Wikileaks ha offerto ad alcuni mezzi d’informazione statunitensi un accesso last minute ai documenti, a patto che s’impegnassero per iscritto a pagare una penale in denaro se avessero diffuso le informazioni prima del tempo. Al New York Times non è mai stato chiesto di firmare né di pagare niente. Per Wikileaks, almeno in quella prima uscita importante, la visibilità era più che sufficiente.

Molti pezzi meritavano di essere letti, il mio preferito è uno dei più semplici

A New York, nel frattempo, avevamo messo insieme una squadra di giornalisti, esperti di data base e redattori, sistemandola in un ufficio isolato. Andrew Lehren, della sezione giornalismo digitale, si è occupato di fare la prima scrematura, facendo ricerche di sua iniziativa o su suggerimento di altri giornalisti, assemblando documenti e riassumendone il contenuto. Abbiamo assegnato a ogni tema dei giornalisti con competenze specifiche, consegnandogli le password per analizzare liberamente i dati. Questa procedura sarebbe diventata lo standard anche per il materiale successivo.
Il progetto era avvolto da un’atmosfera da complotto tendente alla paranoia, forse comprensibile, considerato che avevamo a che fare con una enorme quantità di documenti riservati e con una fonte che si comportava come un fuggitivo, cambiando continuamente indirizzo, email e numero di cellulare. Usavamo siti web criptati. I giornalisti si scambiavano appunti via Skype, considerato un po’ meno vulnerabile alle intercettazioni. Durante le videoconferenze usavamo un linguaggio in codice da principianti. Assange era sempre “la fonte”. L’ultimo blocco di dati ricevuti era “il pacco”. Nelle due settimane in cui ho lasciato New York per andare a visitare le nostre redazioni in Pakistan e in Afghanistan, dove probabilmente le comunicazioni erano controllate, abbiamo deciso che sarei rimasto fuori da qualsiasi comunicazione sul progetto. Non ho mai pensato che questo bastasse a evitare l’intrusione dei servizi di sicurezza statunitensi o pachistani. E non ho mai capito fino in fondo se questa eventualità mi innervosiva più o meno dei cibertrucchetti di Wikileaks. C’è stato un periodo, quando i rapporti tra i giornali e Wikileaks erano particolarmente difficili, in cui almeno tre persone legate al progetto hanno notato movimenti inspiegabili nei loro account di posta elettronica, probabili indizi di qualche accesso illecito.

I nostri avvocati ci avevano rassicurati sul fatto che potevamo pubblicare i documenti segreti senza violare la legge, ma ci chiedevamo in che modo il governo statunitense – o quello di un altro paese – potesse ostacolare il progetto o fare pressioni. Inoltre, legalità a parte, sentivamo l’obbligo morale di usare il materiale in modo responsabile. Anche se non potevamo cambiare molto le cose – Wikileaks aveva comunque deciso di rendere pubblico il materiale sfruttando la cassa di risonanza di internet – avremmo dovuto comunque svolgere il nostro lavoro di giornalisti con la massima cura. Fin dall’inizio abbiamo deciso che avremmo omesso dagli articoli e dai documenti segreti tutto quello che avrebbe potuto mettere a repentaglio la vita di qualcuno.

Guidati da giornalisti con una grande esperienza sul campo, abbiamo cancellato i nomi di cittadini, politici locali, attivisti e studiosi che avevano parlato con soldati o diplomatici statunitensi. Abbiamo eliminato ogni dettaglio che potesse rivelare operazioni di intelligence in corso, tattiche militari o luoghi in cui si trovava il materiale per la fabbricazione di armi. Tre giornalisti con grande esperienza nella gestione dei segreti militari – Eric Schmitt, Michael Gordon e C.J. Chivers – hanno revisionato i documenti prima della pubblicazione.

La sede del New York Times, 23 aprile 2009. (Jin Lee, Bloomberg/Getty Images)

Abbiamo deciso di pubblicare i primi articoli del progetto, quelli poi battezzati War logs, sui siti del New York Times, del Guardian e dello Spiegel domenica 25 luglio. Alcuni giorni prima di quella data ci siamo messi in contatto con la Casa Bianca per raccogliere le reazioni del governo statunitense alla pubblicazione del materiale riservato e a una serie di articoli che volevamo scrivere, in particolare un pezzo sul ruolo ambiguo del Pakistan come alleato degli Stati Uniti. Il 24 luglio, alla vigilia della pubblicazione dei War logs, ero a una festa di commiato in onore di Roger Cohen, editorialista del New York Times e dell’International Herald Tribune. L’evento era stato organizzato da Richard Holbrooke, l’inviato speciale dell’amministrazione Obama in Afghanistan e Pakistan. Vorace consumatore di informazioni riservate, Holbrooke aveva un’idea abbastanza precisa di quello che stava per succedere, e mi ha preso da parte per mostrarmi sul suo BlackBerry la valanga di email di livello ministeriale che rimbalzavano ai piani alti del governo. Alla Casa Bianca erano tutti in ansia, e lui lo sapeva. La seccatura più grande per l’amministrazione sarebbe stato l’articolo sul Pakistan. Ma una delle tante doti di Holbrooke era quella di sapersela cavare decentemente anche in situazioni molto difficili. Stava già pensando a come sfruttare le prove dell’ipocrisia di Islamabad per rimettere in riga i pachistani. Cinque mesi dopo, quando Holbrooke – che aveva solo 69 anni e sembrava indistruttibile – è morto per una lacerazione dell’aorta, mi sono ricordato di quella serata. E il mio ricordo più nitido è che lui era entusiasta quanto me alla vigilia di una svolta di quella portata.

Abbiamo pubblicato gli articoli sul sito del New York Times il 25 luglio alle 17, un orario scelto per conciliare i tempi di tutti e tre i giornali. Ero fiero di come una squadra di grandi professionisti fosse riuscita a ricavare un lavoro giornalistico coerente ed estremamente interessante da una massa grezza di rapporti dal fronte, stilati per lo più in un miscuglio di acronimi e gergo militare. I giornalisti avevano aggiunto contesto, sfumature e interrogativi. In quella prima serie di articoli c’era molto che meritava di essere letto, ma il mio pezzo preferito resta uno dei più semplici. Chivers aveva raccolto tutti i dispacci su un unico, remoto e tormentatissimo avamposto militare statunitense, cucendoli insieme in un racconto straziante. I dispacci provenienti da quell’avamposto raccontano, in piccolo, l’ambizione, la graduale disillusione e infine la frustrazione che l’Afghanistan ha riservato a chi nei secoli ha cercato di occuparlo.

Giacca e cravatta
Gli articoli usciti quel giorno erano la prova concreta del fatto che i tre giornali agivano in modo indipendente. Il Guardian, un quotidiano di sinistra, ha usato i primi War logs per portare l’attenzione sulle vittime civili in Afghanistan, sottolineando che in base ai documenti le forze della coalizione avevano ucciso “centinaia di civili in incidenti mai rivelati” ed evidenziando i costi di una “guerra fallimentare”. I nostri giornalisti avevano esaminato lo stesso materiale, ma si erano resi conto che i principali episodi in cui c’erano state vittime civili erano stati già raccontati dal New York Times, spesso in prima pagina. Le vittime civili di cui non avevamo ancora parlato erano nell’ordine di poche decine. Inoltre, dal momento che nei rapporti molte apparivano due volte o non risultavano affatto, abbiamo concluso che calcolarne il totale sarebbe stato poco più che una congettura. Tre mesi dopo, quando anche il quotidiano francese Le Monde si è aggiunto al gruppo, abbiamo pubblicato la seconda infornata, gli Iraq war logs. Gli articoli che li accompagnavano spiegavano in che modo gli Stati Uniti avevano chiuso un occhio sulle torture dei prigionieri, documentavano il sistematico ricorso dell’esercito americano a compagnie militari private e denunciavano le forti ingerenze dell’Iran nel conflitto.

In quel periodo i rapporti del New York Times con la sua fonte sono passati dalla diffidenza all’ostilità. Ho parlato alcune volte al telefono con Assange, ascoltando le sue rimostranze. Ha reagito con rabbia quando ci siamo rifiutati di linkare il nostro speciale sui War logs al sito di Wikileaks, una decisione dettata dal timore – poi rivelatosi fondato – che nella massa di dati non rivisti ci fossero anche i nomi di informatori di basso livello, che sarebbero diventati facili bersagli per i taliban. “Che ne è del rispetto?”, mi ha chiesto Assange. “Che ne è del rispetto?”. Una volta mi ha chiamato per stroncare il nostro profilo di Bradley Manning, il soldato americano sospettato di essere la fonte delle rivelazioni di Wikileaks. L’articolo ricostruiva l’infanzia solitaria di Manning e le sue difficoltà di omosessuale arruolato nell’esercito. Secondo Assange avevamo “psicologicizzato” Manning e dato poco risalto al suo “risveglio politico”.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata un profilo di Assange pubblicato in prima pagina il 24 ottobre. Gli autori, John Burns e Ravi Somaiya, parlavano delle divisioni interne al gruppo di Wikileaks, causate dalla gestione autoritaria di Assange. Assange ha definito quell’articolo “diffamatorio”.

Nel frattempo la fama da fuorilegge lo stava trasformando. Il vagabondo con lo zaino e i calzini calati ha cominciato a sfoggiare capelli tinti e tagli accurati, e a indossare moderni abiti attillati con tanto di cravatta. È diventato un personaggio di culto per i giovani europei di sinistra, e una calamita per le donne. Due donne svedesi hanno denunciato Assange sostenendo di essere state costrette a fare sesso senza preservativo. Per le leggi svedesi sul sesso non consensuale un comportamento del genere è considerato uno stupro, così un pubblico ministero ha emesso un mandato d’arresto nei confronti di Assange per poterlo interrogare. Lui, in un primo momento, ha attribuito la vicenda a un complotto per screditare Wikileaks. Con il tempo Julian Assange ha cominciato a sembrarmi il personaggio di un thriller di Stieg Larsson: uno che potrebbe interpretare tanto l’eroe quanto il cattivo in uno di quei mega seller svedesi che mescolano controcultura hacker, complotti ad altissimo livello e una concezione del sesso in bilico tra intrattenimento e violenza.

Fuori controllo
Nell’ottobre del 2010 Wikileaks ha consegnato al Guardian il suo terzo archivio: 250mila comunicazioni tra il dipartimento di stato americano e le sue sedi diplomatiche in tutto il pianeta. Stavolta Assange ha posto una nuova condizione: il Guardian non doveva condividere il materiale con il New York Times. Anzi, ha detto ai giornalisti britannici che era in trattativa con altre due testate statunitensi – il Washington Post e il gruppo McClatchy – per coinvolgerle nel progetto al posto del New York Times. Inoltre ha allargato la lista dei destinatari al quotidiano spagnolo El País.

La condizione imposta da Assange ha messo il Guardian in difficoltà. Ormai i giornalisti del New York Times e del Guardian avevano stabilito una buona collaborazione. Il New York Times offriva un ampio bacino di lettori statunitensi e i contatti con il governo degli Stati Uniti necessari a ottenere commenti e retroscena. E considerate le possibili complicazioni legali e le reazioni pubbliche, era un bene non essere soli in trincea. Qui al New York Times, inoltre, ci eravamo convinti che Assange stesse perdendo il controllo della sua miniera di segreti. Una giornalista indipendente, Heather Brooke, aveva ottenuto del materiale da un dissidente di Wikileaks e aveva avviato una collaborazione autonoma con il Guardian. Nelle settimane successive, decine di cablogrammi sarebbero spuntate su quotidiani libanesi, australiani e norvegesi. David Leigh, il responsabile delle inchieste del Guardian, ha concluso che quelle fughe non autorizzate di materiale sollevavano il Guardian da qualsiasi impegno, e ha consegnato i cablogrammi anche a noi.

Il 1 novembre Assange e due dei suoi avvocati sono piombati nell’ufficio di Alan Rusbridger, furiosi per l’autonomia rivendicata dal Guardian e sospettando che il New York Times fosse entrato in possesso dei cablogrammi diplomatici. Nel corso di una riunione durata otto ore, Assange ha più volte inveito contro il New York Times – in particolare per l’articolo di prima pagina su di lui – mentre i giornalisti del Guardian cercavano di calmarlo. In piena bufera, Rusbridger mi ha chiamato per informarmi che Assange pretendeva una rettifica in prima pagina sul New York Times. Il direttore del Guardian sapeva che era una richiesta assurda, ma stava cercando di guadagnare tempo per far sbollire Assange. Alla fine sia Rusbridger sia Georg Mascolo, il caporedattore dello Spiegel, hanno detto ad Assange che intendevano proseguire la collaborazione con il New York Times: prendere o lasciare. Lui non ha avuto molta scelta: eravamo già in possesso di tutti i documenti. Nei due giorni successivi i giornali si sono accordati sui tempi di pubblicazione.

Sono il primo ad ammettere che i giornali a volte sbagliano

La settimana dopo abbiamo inviato Ian Fisher, un nostro vicecaporedattore degli esteri, a Londra. Fisher, che è stato uno dei principali coordinatori del lavoro di elaborazione dei cablogrammi, doveva mettere a punto gli ultimi dettagli. La riunione è filata liscia anche dopo l’arrivo di Assange. “Si è comportato insolitamente bene”, mi ha scritto poi Fisher in un’email. “Niente urla o scatti d’umore”. Ma dopo cena, quando Fisher stava per andarsene, Assange si è congedato con una battuta minacciosa: “Mi dica, lei è in contatto con i suoi avvocati?”. Fisher ha risposto di sì. “Meglio per lei”, ha concluso Assange.

Fisher se n’è andato da Londra tranquillizzato sul fatto che avrebbe continuato ad avere accesso al materiale. Ma noi, per ogni evenienza, ci siamo fatti un’assicurazione contro la concorrenza: abbiamo chiesto a Scott Shane, un corrispondente da Washington, di scrivere un lungo articolo che raccogliesse le principali rivelazioni contenute nei cablogrammi, da poter pubblicare rapidamente sul sito. Se Wikileaks avesse dato il materiale a qualcun altro, non ci saremmo fatti trovare impreparati.

Per i temi trattati e la natura stessa della diplomazia, i cablogrammi erano destinati a essere più esplosivi dei War logs. Il 19 novembre 2010 Dean Baquet, il capo della nostra redazione di Washington, ha messo in preallarme la Casa Bianca. Quattro giorni dopo Baquet e altri due colleghi sono stati invitati in una stanza senza finestre del dipartimento di stato. Seduti intorno a un tavolo c’erano rappresentanti della Casa Bianca, del dipartimento di stato, della direzione dell’intelligence nazionale, della Cia, dei servizi segreti militari, dell’Fbi e del Pentagono. Altri, che non hanno rivelato la loro identità, erano in piedi lungo le pareti. Una persona prendeva appunti su un computer. Della riunione non esistono verbali, ma è lecito affermare che l’atmosfera fosse tesa. Scott Shane, uno dei giornalisti presenti, ha parlato di “un sottofondo di indignazione e frustrazione”.

Le riunioni successive, che presto hanno lasciato il posto a videoconferenza quotidiane, sono state più professionali. Prima di ogni discussione la redazione di Washington spediva i cablogrammi che volevamo pubblicare, e l’amministrazione li distribuiva a esperti delle varie regioni. Le loro reazioni venivano poi trasmesse a un ristretto gruppo di funzionari del dipartimento di stato, che si presentava con una lista di priorità e una serie di considerazioni. Noi riferivamo le preoccupazioni del governo e le nostre decisioni alle altre testate.

Le preoccupazioni della Casa Bianca erano di tre tipi. Innanzitutto bisognava proteggere le persone che, parlando con i diplomatici statunitensi in paesi governati da regimi oppressivi, avevano espresso liberamente le loro opinioni. In questi casi ci siamo trovati quasi sempre d’accordo, e dobbiamo ringraziare il governo per avercene indicati alcuni che ci erano sfuggiti. La seconda categoria riguardava alcune questioni delicate, per lo più di intelligence. Abbiamo accettato di omettere alcune informazioni, per esempio un cablogramma in cui veniva descritto un programma per la condivisione di informazioni di intelligence che era stato messo a punto in anni di lavoro. Alla terza categoria appartenevano i cablogrammi che contenevano commenti espliciti di e su politici stranieri, capi di stato inclusi. Il dipartimento di stato temeva che pubblicandoli avremmo messo in crisi i rapporti con i paesi interessati. Le loro argomentazioni non ci hanno quasi mai convinto. A differenza dei dispacci militari, i cablogrammi diplomatici erano scritti in un inglese perfettamente comprensibile, talvolta con ironia, vivacità e perfino un certo orecchio per i dialoghi. Ma avevano bisogno ancora di più di essere contestualizzati e analizzati. Inoltre era importante ricordare che erano interpretazioni degli eventi, letture a volte ipotetiche, ambigue o sbagliate.

La tensione tra l’obbligo che un quotidiano ha di informare e la responsabilità che un governo ha di proteggere è tutt’altro che una novità. Almeno fino a quest’anno, nulla che sia uscito sul New York Times da quando lo dirigo ha provocato tanta agitazione quanto i due articoli sui metodi usati dall’amministrazione Bush dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001. Il primo, pubblicato nel 2005 e vincitore di un premio Pulitzer, rivelava che la National security agency stava intercettando conversazioni telefoniche ed email in territorio nazionale senza un mandato. L’altro, pubblicato nel 2006, descriveva un programma del dipartimento del tesoro per il controllo delle transazioni bancarie internazionali.

Ricordo benissimo il giorno in cui, seduto nello studio ovale, ascoltai il presidente George W. Bush che cercava di convincere me e l’editore del giornale a non pubblicare l’articolo sulle intercettazioni. Sosteneva che pubblicandolo ci saremmo resi corresponsabili di un nuovo attacco terroristico. I suoi argomenti non ci convinsero e pubblicammo l’articolo. Le reazioni del governo e degli opinionisti conservatori furono clamorose.

L’amministrazione Obama ha reagito in un modo diverso, quasi sempre sobrio e professionale. La Casa Bianca, pur condannando Wikileaks per aver reso pubblici i documenti, non ha cercato di ostacolarne la pubblicazione. Non ci sono state prediche nello studio ovale. Anzi: nelle discussioni che hanno preceduto l’uscita degli articoli, i funzionari della Casa Bianca, pur contestando alcune conclusioni che avevamo tratto dal materiale, ci hanno ringraziato per la cura con cui abbiamo gestito i documenti. Il segretario di stato, quello della difesa e il procuratore generale hanno resistito alla tentazione di scatenare un attacco alla stampa. Non si è mai parlato seriamente di azioni legali contro i giornali. Anche se la pubblicazione dei documenti ha sicuramente creato imbarazzi, le agenzie governative hanno collaborato con noi per cercare di evitare la diffusione del materiale che avrebbe potuto danneggiare persone innocenti o l’interesse nazionale.

La vera rivoluzione
Sono il primo ad ammettere che i giornali, compreso quello che dirigo, a volte sbagliano. Possiamo essere ingenui o cinici. Possiamo commettere errori tanto nel mantenere i segreti quanto nel rivelarli. Ci sforziamo di giudicare nel modo più corretto possibile. Quando facciamo un errore, cerchiamo di correggerlo. In democrazia, una stampa libera può combinare pasticci. Ma l’alternativa sarebbe concedere a chi ci governa il diritto di veto su quello che i cittadini possono sapere. Chiunque abbia lavorato in paesi dove le notizie sono controllate dal governo potrebbe sottoscrivere l’osservazione di Thomas Jefferson secondo cui è meglio avere dei giornali senza un governo che un governo senza giornali.

Non esiste una formula per mantenere l’equilibrio tra il nostro obbligo di informare e quello del governo di proteggere. Sul piano pratico, la tensione tra queste due spinte si traduce in una serie di rituali.

Julian Assange va dicendo in giro che ha agito come una sorta di burattinaio, ingaggiando vari giornali, costringendoli a lavorare insieme e guidando la loro attività. Sbruffonate, per usare un eufemismo. Per tutta la durata di questa esperienza, abbiamo sempre trattato Assange come una fonte. Il rapporto che si ha con le fonti è lineare: non sta scritto da nessuna parte che si debbano condividere i loro obiettivi, riecheggiarne la retorica, prendere per buono tutto quello che dicono, approvare i loro metodi o, meno che mai, consentirgli di manipolare o censurare il lavoro di un giornalista. L’obbligo di un giornale indipendente è di verificare le notizie, inquadrarle in un contesto, stabilire in modo responsabile cosa pubblicare e cosa no, e ricavarne un senso. Ed è quello che abbiamo fatto.

Ma anche se non considero Assange un partner e ci penserei due volte prima di descrivere l’attività di Wikileaks come giornalismo, trovo agghiacciante l’idea che il governo possa decidere di perseguire Wikileaks per aver reso pubbliche delle informazioni segrete, o peggio ancora che vengano fatte nuove leggi per punire la diffusione di informazioni riservate. Un conto è usare le vie legali contro un funzionario del governo colpevole di divulgare segreti che ha giurato di proteggere, un altro è criminalizzare la pubblicazione di questi segreti da parte di qualcuno che non ha obblighi ufficiali. Questo mi pare in contrasto con il primo emendamento della costituzione statunitense, oltre che con la miglior tradizione di questo paese. Un collega si è chiesto giustamente: se Assange non somigliasse al protagonista di un romanzo di Stieg Larsson, e se Wikileaks non trasudasse una così aperta avversione per gli Stati Uniti, la reazione alle fughe di notizie sarebbe stata altrettanto dura?

Lascerò ad altri e alla storia il compito di stabilire se Wikileaks abbia cambiato radicalmente il giornalismo. Personalmente, credo che il suo impatto sia stato un po’ ingigantito. Molto prima che Wikileaks nascesse, il paesaggio del giornalismo è stato trasformato da internet, che ha creato un mercato globale in cui è facile raggiungere il pubblico e le fonti. Internet ha aperto la strada a una nuova infrastruttura per la condivisione e la verifica delle informazioni, ma anche a un minor rispetto per la privacy e la segretezza. Assange ha spesso rivendicato il merito di aver inventato quello che lui chiama il “giornalismo scientifico”, in cui ai lettori viene fornito il materiale grezzo perché possano giudicare l’attendibilità dei resoconti giornalistici. Ma la pubblicazione di documenti sui quotidiani è vecchia quasi quanto i quotidiani stessi. E da quando internet ha eliminato i vincoli di spazio, è sempre più frequente.

Nemmeno mi pare così scontato che Wikileaks rappresenti il trionfo della trasparenza. Volendo dar credito alle versioni ufficiali, la maggior parte delle rivelazioni di Wikileaks proviene da un soldato angosciato, talmente angosciato da rischiare parecchi anni di galera. È possibile che la nascita di intermediari dell’informazione online come Wikileaks serva da richiamo per potenziali talpe e persone che hanno paura di farsi sorprendere a trafficare con un giornale. Ma non si può parlare di anarchia dell’informazione. Non ancora, al-meno.

La lista dei nemici
Verso la fine del 2010, i giornali che hanno partecipato all’avventura di Wikileaks hanno indetto una conferenza stampa per discutere degli scenari futuri. La prima ondata di articoli tratti dai cablogrammi segreti si era esaurita. Altre ne sarebbero seguite, ma poco alla volta e senza un calendario prestabilito. Di comune accordo, abbiamo deciso di proseguire con il lavoro di ripulitura delle informazioni delicate, e di sollecitare Wikileaks a fare lo stesso. Ma il periodo di collaborazione intensa, e di contatti regolari con la fonte, stava terminando.

Poco prima di Natale Ian Katz, il vicedirettore del Guardian, è andato a trovare Assange, arrestato a Londra su mandato svedese, rimasto in carcere per qualche giorno e rilasciato dopo che la sua cauzione era stata pagata da alcuni ricchi ammiratori. Era agli arresti domiciliari in una villa nella campagna dell’East Anglia. Il flusso di finanziamenti a Wikileaks, che a suo dire aveva raggiunto i centomila euro al giorno, si era interrotto quando Visa, MasterCard e PayPal avevano deciso di bloccare le donazioni a Wikileaks. Poco tempo dopo, Assange avrebbe firmato un ricco contratto con una casa editrice per pagarsi gli avvocati. Dopo il New York Times, anche il Guardian era entrato nella lista dei nemici, innanzitutto per aver condiviso con noi i cablogrammi diplomatici, e poi per aver messo le mani sui verbali non censurati della polizia svedese contenenti le accuse nei confronti di Assange (chi di scoop ferisce…). Assange si era sentito tradito e in un’intervista al quotidiano britannico Times aveva espresso la sua delusione nei confronti dei giornali che avevano pubblicato il suo materiale. Se così facendo pensava di ingraziarsi il rivale del Guardian, era stato ingenuo. Il Times, ben contento di dare risalto alla sua intervista esclusiva, l’aveva fatta seguire da un editoriale in cui gli dava dello sciocco e dell’ipocrita.

In un salotto della villa in East Anglia, Assange ha sottoposto Katz a un fuoco di fila, rimuginando per quattro ore sul caso svedese, sui suoi problemi economici e sul progetto di diffondere nuovo materiale riservato. Ha parlato in termini vaghi di altri documenti segreti, tra cui una serie di email interne di una banca statunitense.

Ha detto che il dipartimento di giustizia statunitense vuole punirlo per aver minacciato il segreto di stato. E che se sarà estradato, potrebbe “finire ucciso dal sistema carcerario americano, un po’ come Lee Harvey Oswald con Jack Ruby, vista la frequenza con cui certi politici statunitensi chiedono la mia morte”.

Mentre Assange dal suo esilio si lasciava andare a cupe riflessioni, uno dei suoi avvocati ha fatto circolare un finto biglietto d’auguri natalizio, da cui si capisce che almeno qualcuno, nella squadra di Wikileaks, ha il senso dell’umorismo.

Diceva:

“Cari bambini,
Babbo Natale non esiste.
Con affetto,
Wikileaks”.

(Traduzione di Matteo Colombo)

Da sapere
Da Wikileaks al carcere

5 aprile 2010 Wikileaks diffonde il video di un raid statunitense a Baghdad, in cui nel 2007 morirono almeno 18 civili.
7 giugno Bradley Manning, un soldato statunitense impegnato a Baghdad, è arrestato con l’accusa di aver fornito a Wikileaks il video.
25 luglio Wikileaks pubblica circa 92mila documenti militari statunitensi sulla guerra in Afghanistan.
22 ottobre Wikileaks pubblica 400mila documenti militari statunitensi sulla guerra in Iraq dal 2004 al 2009.
18 novembre Un tribunale svedese emette un mandato d’arresto per Assange con l’accusa di stupro, molestie sessuali e coercizione.
28 novembre Wikileaks diffonde oltre 250mila documenti diplomatici statunitensi.
7 dicembre Assange è arrestato dalla polizia britannica in base a un mandato europeo emesso dalla Svezia.
16 dicembre Assange è rilasciato su cauzione dopo nove giorni di prigione, a condizione che alloggi in una residenza a tre ore da Londra.
24 febbraio 2011 Un giudice britannico approva la richiesta svedese di estradizione.
19 giugno 2012 Assange entra nell’ambasciata ecuadoriana a Londra e chiede asilo politico sostenendo di essere perseguitato e di temere l’estradizione prima in Svezia e poi negli Stati Uniti.
2 aprile 2019 Il nuovo presidente dell’Ecuador accusa Assange di aver violato le condizioni per l’asilo politico, che gli viene tolto. L’11 aprile la polizia britannica ottiene il permesso di entrare nell’ambasciata e arresta Assange, che il giorno dopo viene privato della cittadinanza ecuadoriana. Da allora è incarcerato nel carcere di Belmarsh, a Londra.
19 novembre 2020 La magistratura svedese fa cadere le accuse di violenza sessuale, per mancanza di prove.
5 gennaio 2021 La giustizia britannica nega l’estradizione di Assange negli Stati Uniti per motivi di natura medica.
27-28 ottobre Processo d’appello per l’estradizione: il giornalista rischia fino a 175 anni di carcere per violazioni della legge sullo spionaggio e della legge sulle frodi e gli abusi informatici.


Questo articolo è stato pubblicato il 25 marzo 2011 sul numero 890 di Internazionale. Era uscito sul New York Times Magazine.

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