12 marzo 2004 14:15

Questo articolo è stato pubblicato il 12 marzo 2004 nel numero 530 di Internazionale.

I risultati delle elezioni presidenziali del 24 marzo 2000 non furono una sorpresa per nessuno. Vladimir Putin, il delfino del presidente uscente Boris Eltsin, vinse al primo turno: tutto era andato secondo il copione del Cremlino. Eppure le votazioni furono accompagnate da uno scandalo che le autorità, malgrado tutti gli sforzi, non riuscirono a mettere a tacere. A fare scalpore non fu tanto l’esito del voto quanto lo scrutinio. Le elezioni del 2000 non erano state più “sporche” del referendum costituzionale del 1993 o della rielezione di Eltsin nel 1996. Ma allora nessun politico d’opposizione si era azzardato a dichiarare pubblicamente che i risultati erano stati manipolati.

Questa volta, invece, i dati pubblicati dalla Commissione elettorale centrale (Cec) si rivelarono talmente sospetti che fu impossibile evitare le accuse di brogli. Se ne cominciò a parlare apertamente la stessa notte in cui furono rese pubbliche le cifre. Stando ai risultati ufficiali, Putin – che aveva promesso di combattere il “banditismo ceceno” e il “terrorismo islamico” – aveva ottenuto consensi particolarmente alti nelle autonomie musulmane, compresa la stessa Cecenia. Qui sembrava che avesse votato l’80 per cento della popolazione, anche se oltre un terzo degli abitanti, sempre secondo i dati ufficiali, aveva abbandonato il territorio della repubblica. Qualcuno osservò maliziosamente che i guerriglieri erano scesi dalla montagna, si erano presentati nei seggi elettorali e, dopo aver votato Putin, erano tornati a combattere contro di lui. Il partito comunista, che aveva decine di migliaia di osservatori, riconobbe che Putin aveva conquistato il primo posto con il 45 per cento circa dei voti, ma questo non bastava per vincere al primo turno. Il gruppo del Cremlino non poteva però permettersi un ballottaggio e proclamò la vittoria del “candidato amato da tutto il paese” senza aspettare il consenso del paese stesso.

La spartizione
L’élite aveva bisogno di Putin per superare la crisi politica dalla quale la Russia non era riuscita a uscire negli anni di governo di Eltsin. In un periodo in cui i nuovi clan emersi dai vecchi apparati si spartivano le proprietà statali, la crisi permanente era necessaria e a suo modo vantaggiosa: nella confusione generalizzata era più semplice sistemare i propri affari. Ma alla fine degli anni novanta in Russia si affermarono potenti gruppi di oligarchi che si impadronirono delle risorse naturali del paese, destinate al mercato mondiale. I vincitori avevano bisogno di ordine e di veder garantita l’inviolabilità dei loro averi. L’ultraliberismo dei primi anni novanta era condannato a trasformarsi in un conservatorismo nazionale. Il vocabolario dell’opposizione nazionalista adesso andava benissimo anche per il Cremlino.

La ristrutturazione dello spazio politico cominciò già nel 1999, quando venne fondato il partito Unità, che riunì gran parte dei burocrati di stato. Dopo la vittoria di Putin, Unità si fuse con il partito Patria-Tutte le Russie, che rappresentava un’altra fetta della burocrazia, soprattutto quella provinciale. Tra le due formazioni non esistevano differenze ideologiche, l’unico motivo di scontro riguardava le candidature per i posti chiave dell’amministrazione. Una volta consolidati, i partiti al potere – raggruppati in Russia Unita – affrontarono il problema dell’opposizione. I partiti che alla Duma criticavano il governo non erano mai stati un problema per il Cremlino.

In Russia l’opposizione è corrotta fino al midollo: è noto a tutti che singoli deputati e interi gruppi parlamentari incassano mazzette per votare “bene”, e la vendita di posti nelle liste di partito è diventata il principale mezzo di finanziamento delle campagne elettorali. Ma il Cremlino ritenne che questo tipo di controllo dei voti fosse troppo costoso, e così cominciò a perseguitare il partito comunista. Russia Unita si impadronì di tutte le commissioni della Duma dopo aver promesso al presidente di ottenere – con l’aiuto della docile Cec – una schiacciante maggioranza di voti alle elezioni del 2003, in modo da accelerare e rendere più economica l’approvazione delle leggi.

I clan che si sono impadroniti del paese hanno bisogno di stabilità, ma non possono fidarsi della democrazia

Come ex funzionario dei servizi segreti estraneo ai vari clan rivali, Putin faceva comodo a tutti. Se la sua base politica personale era debole, tanto meglio: la personalità poco incisiva e la scarsa esperienza nelle questioni di governo rendevano tutto più facile per l’amministrazione del Cremlino e per gli innumerevoli esperti di propaganda, che modellarono a loro piacimento l’immagine del nuovo leader della nazione.

La propaganda non mirava a spiegare al popolo chi fosse veramente Putin, ma a nasconderlo, creando un personaggio che non solo era diverso dalla realtà ma che in larga misura era l’esatto contrario. Putin venne dipinto come un “leader forte” e un “politico risoluto”, mentre di fatto era un burocrate mediocre, un mero esecutore privo di volontà propria e di iniziative strategiche. Se avesse avuto una volontà forte e ambizioni politiche Putin non sarebbe mai diventato presidente. Eltsin non sopportava di avere vicino a sé dei politici con ambizioni presidenziali. E in questo aveva un fiuto infallibile, animalesco. Nel 1999 si limitò ad affidare a Putin l’incarico di presidente, come si affida un compito a un subordinato. La debolezza di Putin come politico veniva mascherata con riflessioni sulla sua forza; la mancanza di fiducia in se stesso con aneddoti sulla sua fermezza; il timore del futuro con dimostrazioni di coraggio davanti alle telecamere.

In Russia, dove il principale strumento di controllo politico e sociale dell’opinione pubblica è la televisione, un presidente virtuale come Putin è perfetto. Chi domina l’etere domina anche la politica. Le procedure democratiche si limitano a dare una veste legale al potere, che si fonda su ogni genere di manipolazioni, dalla falsificazione dei sondaggi di opinione a quella dei risultati elettorali. Eppure, già all’inizio del mandato di Putin si verificarono due fatti simbolici. Il primo fu la tragedia del sottomarino Kursk, che smentiva seccamente le dichiarazioni ufficiali sulla rinascita dell’esercito russo. Il secondo fu l’incendio all’antenna televisiva di Ostankino. La realtà virtuale si scontrava con la prosa della vita e mostrava le sue crepe.

Un volto civile
Lo stato russo non si può certo definire debole. Per l’altissimo numero di burocrati, per la ramificazione di ogni genere di strutture poliziesche e per la sua predisposizione all’uso della violenza, l’attuale Russia “democratica” non solo non è inferiore all’Unione Sovietica, ma l’ha già superata da un pezzo. Eppure l’efficacia di queste strutture è relativamente bassa, e la loro corruzione è spaventosa. È la conseguenza del sistema sociale ed economico che abbiamo creato nel corso delle “grandi riforme capitaliste”.

Da superpotenza dotata di un’economia industriale possente – seppure inefficace – in dieci anni la Russia si è trasformata nella classica “fornitrice di materie prime”. I clan che si sono impadroniti del paese hanno bisogno di stabilità, ma non possono fidarsi della democrazia perché hanno privato i due terzi della popolazione di garanzie individuali e sociali. E non è consigliabile neanche una dittatura dichiarata: bisogna mostrare all’occidente “un volto civile”. Per di più, i clan rivali hanno bisogno di garanzie reciproche. Un comodo compromesso è la “democrazia guidata”: lo stato rispetta la libertà di stampa, ma rende difficile la vita ai giornali d’opposizione, per esempio con un’ispezione fiscale o con un controllo sanitario; il governo non ostacola l’attività dei partiti politici, però la registrazione di nuove organizzazioni diventa estremamente difficile; le elezioni sono totalmente libere, ma il loro esito viene ritoccato; il parlamento esiste, ma non ha potere.

Mosca, 2003. (Gueorgui Pinkhassov, Magnum/Contrasto)

Il guaio è che le tendenze autoritarie del governo russo stanno aumentando. La guerra infinita in Cecenia e la “lotta al terrorismo internazionale” sono lo sfondo più adatto. L’ultima guerra, che è cominciata nel 1999 come parte della campagna elettorale di Putin, si è trasformata in una malattia cronica della società russa, senza nessuna possibilità di cura.

Dal passato abbiamo ereditato non solo l’esercito ma anche un poderoso sistema di propaganda che si è ulteriormente rafforzato aggiungendo ai vecchi metodi sovietici di lavaggio del cervello le più recenti tecniche pubblicitarie americane. La privatizzazione dei mezzi di comunicazione non li ha liberati: li ha sottomessi al controllo di un pugno di oligarchi che nella maggior parte dei casi hanno rapporti strettissimi con il Cremlino. Putin è diventato il simbolo della burocrazia, l’emblema dei sostenitori dello stato di polizia.

Purtroppo l’aspirazione alla stabilità delle élite oligarchiche ha generato una nuova esplosione di lotte per il potere. Rimpiazzando Eltsin con Putin, la squadra del Cremlino e gli oligarchi credevano di sostituire un autocrate invecchiato, che cominciava a mostrare segni di debolezza, con un leader giovane ed energico. E allo stesso tempo volevano che questo leader fosse totalmente privo di iniziativa in tutto ciò che riguardava i loro interessi. Disgraziatamente non si possono pretendere dalla stessa persona qualità opposte. L’élite russa ottenne un presidente che non solo era troppo debole per assumersi la responsabilità delle proprie azioni, ma che dipendeva dall’influenza del suo entourage. Dopo una breve tregua, negli anni 2001-2002 la lotta tra le alte sfere per la conquista del potere è ripresa con rinnovato vigore. Prevaleva una sensazione: chi dirigeva Putin, dirigeva il paese.

Sebbene non fosse schierato con nessuno dei clan oligarchici e burocratici, Putin non diventò neppure un personaggio neutrale: cominciò a fondare un suo clan. Originario di San Pietroburgo, trasferì nella capitale i suoi vecchi colleghi della polizia segreta e dell’amministrazione comunale. E ben presto i “pietroburghesi” scatenarono una lotta violenta contro i vecchi clan, non solo per il potere ma anche per le ricchezze.

Il nuovo che avanza
I “vecchi” oligarchi sperimentarono sulla loro pelle cosa si prova a passare da predatore a preda. Il primo a essere “divorato” fu il magnate delle comunicazioni Vladimir Gusinskij. Nel 1999 commise l’imprudenza di appoggiare Patria invece di Unità alle elezioni legislative. E anche se i due partiti si erano già fusi da un pezzo, restituirono l’offesa all’oligarca. Trovare delle irregolarità nel processo di privatizzazione non era complicato. Le grandi fortune della Russia si erano fondate sulla rapina, perciò fu piuttosto facile indicare alla procura dove andare a caccia di prove sufficienti ad aprire una decina di casi giudiziari. Gusinskij fuggì dal paese. I suoi beni furono confiscati e spartiti tra i vincitori: il boccone più appetitoso – l’emittente Ntv – fu assegnato al colosso del petrolio Gazprom, nel quale, dopo una purga di quadri, i “pietroburghesi” cominciarono a svolgere un ruolo di primo piano.

Gusinskij si era dedicato ad affari poco puliti. Invece di commerciare in petrolio e gas, aveva commerciato in parole. Introdurre uno stato di polizia senza ledere gli interessi delle compagnie petrolifere è possibile. Introdurre la censura nella televisione senza toccare gli interessi del più grande gruppo mediatico è già più difficile. Bisogna interferire in un sistema ordinato, nei rapporti tra i professionisti e i loro padroni. In Russia la censura di stato ha fatto saltare il sistema della censura privata, che già da tempo i proprietari degli studi televisivi e i direttori dei programmi avevano introdotto nelle trasmissioni. È crollato un delicato sistema di tacito coordinamento politico. Invece di una televisione che consente la critica al potere nelle questioni di scarso rilievo, ma di fatto promuove gli stessi valori del raggruppamento che dirige il paese, si è realizzata una propaganda noiosa. E i giornalisti indignati si sono trasformati in nemici del potere.

Quattro anni di vacche grasse non sono riusciti ad avvicinare la Russia alla soluzione dei suoi problemi

Dopo la caduta di Gusinskij fuggì dalla Russia un altro noto oligarca: Boris Berezovskij. Padrone di fatto di Ort, il primo canale della televisione, organizzatore del partito Unità ed eminenza grigia del Cremlino, Berezovskij aveva svolto un ruolo non trascurabile nell’avvento di Putin al potere. E proprio per questo, nel più puro stile della tragedia shakespeariana, era condannato. Non fu spogliato dei suoi beni, ma dovette venderne una parte significativa. L’acquirente fu Roman Abramovic, ex socio di minoranza di Berezovskij, che aveva saputo dimostrare la sua lealtà alla squadra del Cremlino. E il Cremlino non creò ostacoli ad Abramovic quando decise di diventare governatore della Ciukotka. Adesso questa regione scarsamente popolata dell’estremo nord adora il suo governatore, che ha trasferito lì il domicilio fiscale delle sue imprese e ora paga le tasse a se stesso. A quanto sembra è l’unica provincia della Russia dove le imposte societarie vengono pagate per intero.

Gli anni di Putin
La caduta degli oligarchi “di prima fila” giovò ai leader “di seconda fila”, il più importante dei quali era Khodorkovskij. La sua società, la Jukos, si rafforzò e cominciò a finanziare i partiti politici, dai comunisti fino all’Unione delle forze di destra, estendendo la sua influenza, precedentemente limitata al petrolio, ad altri settori dell’economia. I “pietroburghesi” riuscirono a impadronirsi solo di Gazprom, e non del tutto, perché lo stato ne possiede una quota. Per il resto i loro successi furono insignificanti. Non sorprende che il crescente volume di affari di Khodorkovskij abbia attirato l’attenzione dei “pietroburghesi”.

Gli anni di Putin sono stati relativamente prosperi grazie agli alti prezzi del petrolio. L’economia della Russia ha però gravi problemi di deindustrializzazione e invecchiamento, e lo sviluppo del paese ormai dipende completamente dalla fornitura di materie prime all’Europa occidentale. Finché i prezzi del combustibile restano alti, nel paese continua ad affluire un fiume di petrodollari che alimenta la crescita del pil. Ma neppure quattro anni di vacche grasse hanno avvicinato la Russia alla soluzione dei suoi problemi chiave. Il divario tra ricchi e poveri non si è ridotto. Un paese di grande cultura si è ritrovato ostaggio di un’economia primitiva e semicoloniale. È continuato il declino delle produzioni ad alto contenuto scientifico. Il livello di efficienza delle grandi società che sono la base dell’economia oligarchica è ridicolo. In un paese in cui la principale fonte di mezzi è l’estrazione di materie prime, distinguere le gestioni efficaci da quelle inefficaci è praticamente impossibile. Finché i prezzi restano alti e l’estrazione procede regolarmente, persino i peggiori amministratori riescono a gestire bene i loro affari. Ma se i prezzi cadranno nessun genio del management potrà tirarci fuori dai guai.

Economia di mercato
Il rincaro del petrolio ha permesso ai funzionari di governo di dormire tra gli allori. Le élite russe continuano a prosperare grazie al potenziale creato dall’Unione Sovietica. La Russia soffre di un catastrofico degrado di tutti i tipi di attrezzature, equipaggiamenti e infrastrutture. I macchinari ancora in piedi vengono sfruttati rapacemente. Lo stato non ha mezzi e per le imprese private è più vantaggioso depositare i soldi all’estero, dove gli interessi e l’efficienza della gestione sono superiori. Una tendenza che si riscontra anche nel settore petrolifero: dal crollo dell’Urss non è più stata organizzata una sola spedizione per la ricerca di nuovi giacimenti.

Gli oligarchi vivono delle riserve sovietiche, e la burocrazia sopravvive grazie agli oligarchi. Le mazzette sono più importanti delle imposte, gli accordi sulla parola hanno più valore delle leggi. Ma per le aziende questo stato di cose sta diventando meno allettante. Negli anni di crescita economica le maggiori strutture oligarchiche hanno accumulato colossali riserve finanziarie. E a metà del 2002 si è notata una tendenza evidente: le società nazionali più importanti cominciavano a diventare transnazionali. Nei territori dell’ex Unione Sovietica e del blocco dell’est ha preso il via l’accaparramento dei beni degli ex partner della “cooperazione socialista di produzione”. Le imprese russe sono arrivate in Bielorussia, Georgia, Ucraina, e poi in Polonia, Slovacchia, Serbia. In poco tempo l’espansione degli oligarchi russi ha raggiunto l’Europa occidentale, dalla lavorazione del greggio in Norvegia all’acquisto della squadra di calcio inglese del Chelsea da parte di Roman Abramovic. Nello stesso tempo le grandi imprese nazionali hanno cominciato ad attrarre con forza i capitali occidentali. Le compagnie più in vista – Lukoil, Sibneft, Norilskij Nikel, Gazprom – hanno seguito la stessa strada. Questa strategia di sviluppo ha poco a che vedere con il rilancio dell’economia del paese di cui tanto si parlava nell’entourage di Putin, però richiede una certa “apertura” delle imprese, un’impostazione dei rapporti con lo stato simile a quella occidentale.

Per i funzionari tutto questo ha implicazioni sgradevoli. Si mette in discussione la consolidata rendita su cui ai tempi di Eltsin si basava la sopravvivenza stessa dell’apparato statale. Mikhail Khodorkovskij e la Jukos non solo si sono rivelati politicamente troppo influenti, ma si sono anche messi in mostra come pionieri della “pulizia” degli affari. Le iniziative di questo tipo hanno suscitato la collera delle “strutture di forza”. Sono cominciati gli arresti e le indagini sulla società. Khodorkovskij ha adottato delle contromisure, dall’alleanza con altri oligarchi al finanziamento della stampa d’opposizione. Come conseguenza il mandato di Putin, cominciato come “l’era della stabilità”, minaccia di concludersi con una nuova esplosione della lotta tra i clan. E neppure la sua rielezione per un secondo mandato è in grado di garantire la stabilità. Come ha dichiarato il direttore di un popolare settimanale moscovita, “in uno scontro tra ladri e assassini, io scelgo i ladri”. Ma non si può dimenticare che gli attuali sostenitori dello stato di polizia (gli “assassini”) hanno partecipato attivamente ai progetti di privatizzazione degli oligarchi (i “ladri”). Come ha detto il giornalista Akram Murtazajev “mentre gli oligarchi rubavano, lo stato faceva il palo”.

Gli oligarchi pretendono che i risultati della privatizzazione siano intoccabili. E qui la squadra del presidente Putin, per quanto possa apparire paradossale, è pienamente solidale con i banchieri e i baroni del petrolio. Per questo serve lo stato di polizia: per difendere il potere dei proprietari. Perciò quanto più discutibile è il loro diritto alla proprietà, tanto più poliziesco dovrà essere lo stato. Ma i funzionari non sono soddisfatti del ruolo che è stato loro assegnato e reclamano una quota dei profitti.

La gente, che ha ricevuto le libertà formali in un quadro di totale mancanza di diritti, non può fare a meno di guardare alla democrazia a dir poco con scetticismo. Malgrado tutte le libertà civili, i russi di oggi sentono di avere meno diritti che in epoca sovietica. Allora un cittadino comune poteva andare a reclamare da qualche parte, ottenere qualcosa. La gente conosceva bene il sistema e, quando occorreva, era in grado di utilizzarlo. Dopo tutto, i diritti civili non dovrebbero ridursi alla possibilità di depositare nell’urna la scheda con il nome dei politici corrotti una volta ogni due anni.

Perfino la libertà di movimento è diventata una farsa perché i due terzi dei cittadini non hanno i soldi per i biglietti. In realtà nella Russia degli anni novanta solo la nuova classe media ha beneficiato dei diritti democratici. E oggi è cominciata un’offensiva contro questa classe.

All’inizio del decennio, quando la Russia stava entrando nel mondo capitalista e la borghesia cominciava appena a formarsi, la nuova classe media difese a oltranza le riforme liberali che le avevano dato non solo la libertà ma anche possibilità materiali fino ad allora sconosciute. Che tutto questo fosse stato ottenuto a prezzo della disintegrazione dell’industria nazionale, e che i beni rimanessero irraggiungibili per due terzi della popolazione non preoccupava minimamente i vincitori. La nuova classe media si considerava un alleato strategico degli oligarchi, anche se non lo ammetteva pubblicamente. La situazione cambiò radicalmente nel 1998 con la caduta del rublo. A pagare fu proprio la classe media, che si rese conto di come il suo posto nel sistema fosse molto più vulnerabile di quanto avesse creduto, e che in un momento di crisi i dirigenti potevano risolvere tutti i loro problemi proprio a sue spese.

Lo stato di polizia farà capire alla umiliata classe media cosa hanno provato negli ultimi dieci anni le masse prive di diritti. Si sta formando una sorta di cultura dell’uguaglianza davanti al manganello. Ma vale solo per la maggioranza, e non per tutti. Si fa un’eccezione per chi è in alto: lì il manganello non arriva. Però il suo raggio d’azione si sta ampliando straordinariamente. L’irrigidimento del regime politico tende a spingere a sinistra l’intellighenzia, o quanto meno i rappresentanti della generazione più giovane. In una situazione di questo tipo, i liberali capaci di pensiero critico diventano radicali e rivoluzionari.

Il potere si scontra con un numero crescente di problemi. L’amministrazione somiglia a un abile giocoliere che fa roteare sulla sua testa un numero sempre più alto di palle: basta un solo sbaglio perché tutto gli crolli addosso.

La storia russa insegna che nel nostro paese ai governanti si perdona molto. L’unica cosa che qui non si perdona è la debolezza.

(Traduzione di Giuseppina Cavallo)

Questo articolo è stato pubblicato il 12 marzo 2004 nel numero 530 di Internazionale.

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