05 giugno 2020 13:18

Il 25 maggio, mentre George Perry Floyd soffocava sotto il peso del ginocchio di un agente di polizia a Minneapolis, una ragazza è riuscita a mantenere il suo cellulare abbastanza fermo da cogliere i suoi ultimi istanti di vita. Il video che ha pubblicato online si è diffuso rapidamente.

Quello che è successo dopo ha ricordato tante altre scene viste nelle città americane dopo casi di presunte violenze della polizia. A Minneapolis e nel resto degli Stati Uniti sono state organizzate veglie e proteste per chiedere che la polizia risponda delle sue azioni. Mentre inquirenti e poliziotti invitavano alla calma, in alcuni casi le proteste sono degenerate e nel giro di poco tempo i notiziari hanno cominciato a trasmettere immagini di atti vandalici e di poliziotti in tenuta antisommossa.

Le posizioni dell’opinione pubblica sulle proteste e sui movimenti sociali che ci sono dietro sono in larga misura plasmate da ciò che le persone leggono o vedono sui mezzi d’informazione. Questo conferisce ai giornalisti un enorme potere nell’orientare il racconto di una manifestazione. Possono sottolineare la distruzione provocata dalle proteste o ripetere fino allo sfinimento i messaggi velatamente razzisti dei politici che definiscono “teppisti” i manifestanti. Ma possono anche ricordare all’opinione pubblica che al centro delle proteste c’è l’ingiusto assassinio di un nero disarmato. In questo modo sposterebbero i riflettori dalla distruzione provocata dalle proteste e li punterebbero sull’impunità della polizia e sugli effetti del razzismo nelle sue diverse forme.

I giornalisti hanno un ruolo indispensabile perché possono permettere ai movimenti di ottenere legittimità e quindi di raggiungere dei progressi sociali.

Dare forma al racconto
In base alle mie ricerche, alcuni movimenti di protesta hanno più difficoltà di altri a guadagnarsi questa legittimità. Insieme alla ricercatrice Summer Harlow ho studiato il modo in cui i quotidiani statunitensi – sia locali sia regionali – hanno seguito le proteste che ci sono state nel paese negli ultimi anni. Abbiamo scoperto che il racconto sulla marcia delle donne e sulle proteste contro il presidente Donald Trump ha dato voce ai manifestanti e ha approfondito in modo significativo le loro rivendicazioni. Al contrario, le proteste contro il razzismo e a favore dei diritti dei nativi sono state raccontate in modo completamente diverso, spesso descritte come minacciose o violente.

Anni fa gli studiosi James Hertog e Douglas McLeod descrissero il modo in cui il racconto delle proteste contribuisce al mantenimento dello status quo, un fenomeno definito “paradigma della protesta”. Secondo loro i racconti dei mezzi d’informazione tendono a sottolineare gli aspetti drammatici, i disturbi e i disagi provocati dalle proteste invece che le rivendicazioni e le proposte dei manifestanti. Questi racconti banalizzano le proteste e impediscono ai movimenti di avere il sostegno dell’opinione pubblica.

Oggi questo paradigma si sviluppa così.

I giornalisti non prestano attenzione alle proteste poco teatrali o non convenzionali. I manifestanti lo sanno e cercano modi per catturare l’attenzione dei mezzi d’informazione e dell’opinione pubblica. Indossano cappelli rosa sgargianti o si inginocchiano durante l’esecuzione dell’inno nazionale. Possono perfino fare ricorso a comportamenti violenti e illegali. A questo punto i manifestanti catturano l’attenzione dei giornalisti, ma spesso il loro racconto è superficiale o delegittimante e si concentra sulle tattiche e sui disagi provocati dalle proteste, escludendo il dibattito sulle ragioni di fondo del movimento.

A causa di queste variazioni nella copertura mediatica, i lettori possono farsi l’idea che alcune proteste siano più legittime di altre

Abbiamo deciso di verificare questa teoria applicandola alla copertura mediatica a partire dal 2017, con le proteste su vasta scala che hanno accompagnato il primo anno della presidenza di Donald Trump. Per farlo abbiamo analizzato la copertura delle proteste sui quotidiani del Texas, uno stato che per dimensioni e diversità poteva essere una sorta di cartina tornasole rispetto a quello che succedeva nel paese in generale.

Usando come chiavi di ricerca termini come “protesta”, “manifestante”, “Black lives matter” e “marcia delle donne” abbiamo individuato 777 articoli, scritti dai giornalisti di venti testate texane, come El Paso Times e Houston Chronicle, o lanciati da agenzie di stampa come Associated Press.

Abbiamo analizzato il modo in cui gli articoli inquadravano le proteste nei titoli, nelle frasi di apertura e all’interno dei pezzi e abbiamo classificato le notizie in base a quattro categorie riconoscibili delle proteste:

  • Sommossa: si sottolineano i comportamenti che creano disagio e fanno ricorso alla minaccia della violenza.
  • Scontro: i dimostranti vengono descritti come bellicosi e i riflettori sono puntati sugli arresti o sugli “scontri” con la polizia.
  • Spettacolo: ci si concentra sull’abbigliamento, sui cartelli o sui comportamenti plateali o emotivi dei manifestanti.
  • Dibattito: si fa riferimento in modo sostanziale alle richieste, ai programmi, agli obiettivi e alle lamentele dei manifestanti.

Abbiamo inoltre monitorato gli schemi della ricerca delle fonti per individuare squilibri che spesso danno più credito alle autorità che ai manifestanti e agli attivisti. In generale la copertura mediatica tendeva a banalizzare le proteste e preferiva concentrarsi sulle azioni più teatrali. Tuttavia, alcune proteste risentivano di questa tendenza più di altre.

Gli articoli si concentravano sull’aspetto spettacolare più che sulla sostanza delle proteste. Circa la metà degli articoli sulle proteste contro Trump, quelle per i diritti degli immigrati e delle donne e sulle azioni ambientaliste davano informazioni rilevanti sulle lamentele e le richieste dei manifestanti.

Al contrario, meno del 25 per cento delle notizie sulle proteste contro l’oleodotto Dakota access e contro il razzismo aveva un tono legittimante ed era molto più probabile che queste proteste fossero descritte come distruttive o provocatorie.

Nella copertura di una protesta a St. Louis, in Missouri, scatenata dall’assoluzione del poliziotto che aveva ucciso Michael Brown, nel 2014, le parole più usate erano violenza, arresto, disordine e disagio, mentre le preoccupazioni sulla violenza della polizia e l’ingiustizia razziale erano a mala pena menzionate. Il quadro più ampio era seppellito sotto più di dieci paragrafi: “Le recenti proteste di St. Louis seguono uno schema già visto dopo l’assassinio nell’agosto del 2014 di Michael Brown nei pressi di Ferguson: i manifestanti, anche se arrabbiati, sono rimasti nella maggioranza dei casi entro il perimetro della legalità”.

A causa di queste variazioni nella copertura mediatica, i lettori dei quotidiani texani possono farsi l’idea che alcune proteste siano più legittime di altre. Questo contribuisce a formare quella che definiamo “gerarchia della lotta sociale”, secondo cui le voci di alcuni gruppi di attivisti vengono elevate al di sopra delle altre.

I giornalisti contribuiscono a questa gerarchia adottando quelle norme del settore dell’informazione che operano contro i movimenti di protesta meno consolidati. Nella fretta i giornalisti possono rivolgersi in automatico a fonti ufficiali per avere dichiarazioni o dati. Questo conferisce alle autorità un controllo maggiore su come inquadrare il racconto. Questa pratica diventa un problema soprattutto per movimenti come Black lives matter, che contestano le affermazioni della polizia e di altri funzionari.

In questo genere di notizie si annidano anche pregiudizi impliciti. Il fatto che nelle redazioni le minoranze non siano molto rappresentate è un problema da tempo.

Nel 2017 la proporzione di giornalisti bianchi al Dallas Morning News e allo Houston Chronicle era più del doppio rispetto alla percentuale complessiva dei bianchi in quelle città.

Le proteste fanno emergere lamentele legittime e spesso affrontano problemi che riguardano persone prive del potere. Ecco perché è fondamentale che i giornalisti non facciano ricorso a narrazioni superficiali, che non danno spazio alle preoccupazioni degli oppressi e al tempo stesso consolidano lo status quo.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito su The Conversation.

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