Iheoma Nwachukwu è uno scrittore nigeriano che vive negli Stati Uniti e insegna letteratura inglese alla Eastern University, in Pennsylvania. Nel 2011 era stato ospite al festival di Internazionale a Ferrara per un incontro con autori e autrici del continente africano che avevano collaborato al numero speciale Storie di dicembre del 2010, curato dallo scrittore keniano Binyavanga Wainaina. Nel racconto pubblicato in quel numero, “La buona figlia”, Nwachukwu parlava di una storia familiare nigeriana con lo sguardo rivolto al passato.

Nella sua ultima raccolta di racconti Japa and other stories (Georgia Press 2024) – vincitrice del Flannery O’Connor award for short fiction e oggi finalista per uno dei premi dei prestigiosi Pen/America literary awards – rivolge lo sguardo al presente, e possibilmente al futuro. La parola japa viene dalla lingua yoruba ed è traducibile con “scappare”, “fuggire via”. Per i nigeriani indica soprattutto la migrazione all’estero, in cerca di una vita migliore.

Con le sue storie Nwachukwu ci porta non solo negli Stati Uniti, ma in giro per il mondo: dallo Utah a Zanzibar, da Boston al Niger a Kaliningrad, gli emigrati dei suoi racconti ci raccontano frammenti delle loro nuove vite, di come riescono a sopravvivere (non sempre legalmente), di come negoziano nuove identità, in una costante tensione tra le radici nel continente africano e il nuovo contesto in cui si trovano a vivere. I racconti sono legati non solo dal tema della migrazione, ma anche da alcuni personaggi ricorrenti che ritornano per raccontarci svolte significative delle loro vite. Per esempio, Ahamefula, uno studente nigeriano che incontriamo nello Utah e che potremmo definire un tipo decisamente incasinato, ricompare in un’altra storia ambientata in una residenza per anziani a Boston.

La narrazione è ricca di dettagli, vivace nei dialoghi e piena di spunti che ci riportano alla realtà di oggi. Per esempio, come abbiamo raccontato anche in un articolo su Internazionale, molti giovani africani sono vittime di truffe orchestrate da presunti procuratori calcistici: nel racconto “Urban gorilla”, Ogechi usa un blog per attirare aspiranti calciatori promettendogli un futuro in una squadra di calcio in Malaysia. Queste storie, ricche di dettagli e personaggi ben caratterizzati, sono come il lato intimo, l’aspetto immaginario della vita di persone che finiscono al centro della cronaca sui giornali.

Partendo da questo spunto, ho chiesto all’autore, che ho sentito via email, da dove ha preso ispirazione e da dove nasce l’idea di sparpagliare i personaggi nel mondo, tra studenti che contrabbandano birra nel puritano Utah e manutentori di piscine di villaggi turistici tanzaniani. “I racconti nascono dall’urgenza di rispondere al mondo che ci circonda, di dargli significato creando un diorama che sia uno specchio dell’umanità”, mi risponde Nwachukwu. “Volevo scrivere di nigeriani della diaspora, ma non solo in occidente. Le persone con cui sono cresciuto, quando sono andate via dalla Nigeria, non sono finite a New York, a Londra o in Svizzera, ma in Malaysia, a Taiwan, in Colombia, in Russia e in Tanzania. Volevo dare testimonianza delle loro vite. Visito spesso i forum online dove leggo di nigeriani che si lamentano del governo, che parlano dello zio in Malaysia o della zia in Ghana. I racconti nascono da questi sfoghi personali, che ho lasciato fermentare nella mia immaginazione. Ho scelto di disseminare i personaggi un po’ dappertutto proprio perché volevo descrivere un mondo abitato dalle persone che conoscevo da piccolo”.

Qual è il suo rapporto con la Nigeria, il suo complicato paese d’origine? “Per me è ancora casa, perché ci sono cresciuto. Non sono un esiliato. È vero che il livello di insicurezza nel paese è preoccupante e che il presidente passa la metà del tempo in Francia per curarsi malattie dovute alla sua età avanzata, quindi è totalmente incapace di affrontare la situazione. Ma resta pur sempre il mio paese”.

L’autore si è trasferito negli Stati Uniti per frequentare un corso di specializzazione all’università del Texas a Austin e ha continuato la carriera accademica lì, “dove aveva prospettive migliori che nel suo paese d’origine”. Gli Stati Uniti sono il posto dove ha creato la sua famiglia e dove sono nati i suoi figli. Anche se nessuna delle vicissitudini raccontate nel libro gli sono capitate in prima persona, gli è familiare “il conflitto inerente all’essere un immigrato in una città straniera, un conflitto riconoscibile che s’intreccia in tutte le storie della raccolta”.

In un’intervista al sito Zyzzyva, Nwachukwu spiega che il significato originario di japa è “strapparsi un braccio”, “liberarsi in modo così brutale da perdere un braccio. E l’emigrazione può essere un atto violento. Un atto violento di libertà”. In Europa e negli Stati Uniti articoli, film, libri ci hanno raccontato viaggi di migranti molto violenti, dolorosi e pericolosi, ma allo stesso tempo estremamente desiderati.

Come si conciliano questi due opposti nelle sue storie? “La gente prende l’elicottero, anche se sa di poter cadere”, osserva Nwachukwu. “Lo stesso vale per chi guida l’auto e non si cura del fatto che gli incidenti possono succedere in qualsiasi momento. Le persone che affrontano la pericolosa traversata del deserto, nonostante le possibili violenze che le attendono, hanno deciso che le vite da cui stanno scappando li fanno sentire senza scopo. E preferiscono rischiare di morire piuttosto che tornare a una vita senza scopo”.

Il libro, dice lo scrittore, è stato ispirato dal “vivere nella paura” durante il primo mandato di Donald Trump. Gli ho chiesto quindi com’è la situazione ora, visto che nel suo secondo mandato Trump sembra avere ancora meno riguardo nei confronti delle sofferenze di migranti, rifugiati e persone provenienti da altri continenti. Per esempio, l’11 aprile gli Stati Uniti hanno revocato la protezione temporanea a circa ottomila camerunesi che erano scappati dal conflitto tra governo e separatisti nel loro paese.“La situazione è tale che su un recente volo da Cleveland a Philadelphia mi sono tolto una collana con un ciondolo bianco e verde a forma di Africa e l’ho messa in tasca perché temevo di essere preso di mira dagli agenti della Transportation security administration”, racconta. “Porto sempre con me una scansione del mio visto sul telefono, nel caso mi fermino gli agenti della Customs and border protection agency (Cbp). Dal mio barbiere preferito la maggior parte dei dominicani si nascondono perché i funzionari della Cbp entrano nelle attività commerciali e arrestano le persone che sospettano siano senza documenti in regola. Gli immigrati sono molto spaventati”.

Scriverà nuovi racconti per raccontare questo periodo? “Immagino che ne usciranno altre storie. Forse una seconda raccolta”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.

Iscriviti a
Africana
Cosa succede in Africa. A cura di Francesca Sibani. Ogni giovedì.
Iscriviti
Iscriviti a
Africana
Cosa succede in Africa. A cura di Francesca Sibani. Ogni giovedì.
Iscriviti

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it