10 agosto 2017 09:58

Sulle strade della città-stato, il tassista di origine cinese ma “singaporiano da tre generazioni” magnifica il primo ministro Lee, l’ordine, la sicurezza, l’ultima esercitazione collettiva per la festa nazionale del 9 agosto, giorno dell’indipendenza dalla Malesia. Magnifica tutto. “Non è come da voi in Europa, dove avete la libertà di parola, il diritto di voto, ma poi rischiate le vita tutti i giorni”.

“Ma ci sei mai stato in Europa?”.

“No”.

Il primo ministro di Singapore, Lee Hsien Loong, in questi giorni è sotto attacco. La pressoché inesistente opposizione parlamentare non c’entra nulla. Sono stati i suoi fratelli minori ad accusarlo pubblicamente di essersi appropriato della casa di famiglia che invece il padre – il defunto fondatore della patria, Lee Kuan Yew – voleva demolita dopo la propria morte: il vecchio Lee a quanto pare era contrario al culto della personalità e cercava di scongiurare l’effetto mausoleo. Ora, dicono Lee Hsien Yang e Lee Wei Ling – fratello e sorella cadetti – il “big brother onnipresente” (parole loro) fa invece lo gnorri e intende tenersi la magione regale, chiaro segno di abuso di potere. E Lee Hsien Loong ha pure lasciato intendere un prolungamento della dinastia al potere attraverso l’ingresso in politica del suo figlio maschio.

Autoritarismo soft
Ci sarebbe quasi odore di Corea del Nord, non fosse che qui la saga familiare indossa il più moderno vestito del capitalismo deregolamentato, altro che quei rozzi dei Kim. L’involucro è formalmente democratico, peccato che il People’s action party (Pap), al potere fin dal 1959, abbia nel tempo occupato tutte le nicchie economiche e politiche della città-stato, cioè tutte le leve del consenso.

“Ma che storia sarà mai”, dice il tassista , “è una vicenda familiare che non c’entra niente con la politica di Singapore. Guarda come tutto funziona bene”. Peccato che secondo l’indice Gini, la società singaporiana sia decisamente tra le più diseguali al mondo.

È un’oligarchia che si forma in un contesto costituzionale, ma la legge è usata proprio per affliggere l’avversario politico

Un articolo comparso sulla Far Eastern Economic Review nel 2006 denunciava che “il governo controlla enormi somme di denaro pubblico attraverso il Central provident Fund e la Government of Singapore investment corp, assolutamente non trasparenti. Controlla soprattutto la spesa per l’edilizia pubblica, in cui vive la maggior parte dei cittadini di Singapore, inoltre usa apertamente i fondi destinati alla ristrutturazione dei condomini come tangente nei distretti che votano per il partito dominante”.

Subito dopo la pubblicazione del pezzo, Lee padre e figlio denunciarono la rivista per diffamazione e vinsero la causa, stessa sorte toccata poi all’International Herald Tribune e al Bangkok Post, nonché a diversi oppositori politici. Questa è stata sempre la strategia dei Lee, nella loro applicazione di un “autoritarismo soft”, definizione non mia bensì accademica: sfinire gli avversari, colpendoli nel portafoglio. È un’oligarchia che si forma in un contesto costituzionale, ma la legge è usata proprio per affliggere l’avversario politico.

“Governing as gardening”, governare come fare giardinaggio, si intitola un saggio del 2011 uscito sul Journal of Citizenship Studies: “Queste società [asiatiche] hanno spesso sostituito lo stato di diritto con il dominio neoconfuciano della virtù, in cui i doveri del cittadino verso lo stato sono più importanti delle responsabilità dello stato verso il cittadino. Nell’ambito di queste politiche autoritarie, lo stato crea un sistema educativo che disciplina l’elettorato piuttosto che creare una cittadinanza informata, proprio perché c’è scarsa fiducia tra i leader e gli elettori. Il dovere del cittadino passivo è solo quello di consentire la legittimità del regime; il dovere dello Stato è quello di fornire sicurezza, eliminando gli elementi fastidiosi”.

Stai al tuo posto
È la spoliticizzazione di un’intera società. Che non contraddice l’immagine bella e rilassante di Singapore, che ti colpisce appena ci metti piede soprattutto se vieni dalla Cina: niente smog, niente pesantezze burocratiche, niente taxi che scompaiono tutti insieme all’improvviso lasciandoti ad annaspare nella notte in un’oscura periferia urbana. Davvero, la Svizzera del sudest asiatico.

L’allenatore dell’Inter, Luciano Spalletti, venuto qui in tournée con la sua squadra, l’ha perfino detto in conferenza stampa: “Ci tornerò sicuramente con la mia famiglia, è un posto eccezionale, complimenti sinceri alla sua amministrazione. Non si vede neanche una cartaccia per terra”.

E sì, manco una cartaccia e neppure un mozzicone.

Un altro singaporiano da generazioni mi racconta che una volta ha preso 300 dollari locali di multa (190 euro) perché ha buttato una cicca per terra. Era andato a pescare con un amico, avevano messo il campanellino sulla lenza e si stavano bevendo una birra e fumando una sigaretta in santa pace.

Il campanellino si è messo improvvisamente a suonare, lui ha gettato la sigaretta per girare il mulinello e sono saltate fuori le guardie forestali, neanche i poliziotti.

“Per me ci fanno le imboscate”.

“Ma il pesce l’hai preso, almeno?”.

“No, manco quello”.

Un amico californiano, un’anima nomade di nome Troy, ha scelto di stabilirsi qui, perché Singapore è lo snodo perfetto per muoversi in tutta l’Asia: l’Indonesia è a 40 minuti di traghetto, la Malesia è dietro le spalle, a quattro ore d’aereo c’è la Cina e a sei l’Australia. Lui è formalmente un monaco buddista, ma dice che del buddismo non gliene importa poi tanto: “Solo che in quanto figura religiosa non mi fanno storie per i visti”. È così, Singapore alla fine ti accoglie. Basta che stai al tuo posto. Poi Troy riconosce: “Quando sono qui, mi manca la tensione culturale. E poi ci sono loro, gli schiavi”.

A Geylang, Little India, e poi su su fino al confine malese, tanti piccoli uomini tengono infatti in piedi questo sogno di società multietnica dove tutto funziona e non si buttano le cartacce per terra.

Sul Guardian è comparsa qualche giorno fa, tra le altre, la testimonianza di un giovane bangladese, Ali, 24 anni.

Per arrivare nella città-stato, attirato dalla promessa di un lavoro come muratore da mille dollari al mese, ne ha dovuti pagare 18mila a vari intermediari. La sua famiglia ha venduto delle terre e ha fatto dei prestiti per avere quella somma, lui avrebbe dovuto costruire proprio gli alloggi convenzionati che stanno alla base del consenso per il governo singaporiano. Dopo cinque mesi di lavoro con straordinari non retribuiti, il suo datore di lavoro è scappato con il malloppo e Ali, con i suoi compagni di lavoro, si è trovato nella miseria più nera e senza possibilità di tornare in Bangladesh, perché potrebbe essere arrestato.

Singapore sarebbe tutto sommato una piccola storia, se non fosse – secondo parecchi osservatori – il modello a cui anche la Cina si ispira. Lo pensa anche il mio tassista: “Comanda uno solo, tutti stanno bene e non si immischiano nelle faccende di stato. Ovvio che piaccia alla leadership cinese”. Progresso, consenso e spoliticizzazione. Ma a me frulla in testa la storia Ali, carne viva così simile ai xin gongren della periferia di Pechino.

Questo articolo è stato corretto e aggiornato l’11 agosto 2017.

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