13 maggio 2020 16:37

Il 19 settembre 2017 Margarita López era a casa quando la terra tremò scuotendo gran parte del Messico, soprattutto la capitale del paese. Di quel minuto eterno López ricorda soprattutto i rumori, che ripete mentre gesticola con le braccia. Ricorda anche la parete che le crollò addosso e le grida con cui cercava di calmare il figlio Kevin Iván: “Sto bene, figlio mio, sto bene”. Quell’immagine è rimasta impressa nel ragazzo e gli ha causato episodi frequenti di ansia. Ma quel momento appartiene al passato. Adesso i due sono alle prese con un terremoto invisibile che li ha costretti a fermare del tutto le loro attività.

Margarita e Kevin Iván – 40 anni la madre, 16 anni il figlio – sono inseparabili. Da metà marzo se ne stanno chiusi per quasi tutto il giorno nella loro piccola casa a Iztapalapa, un quartiere popolare di Città del Messico, dove l’unico segnale che sta succedendo qualcosa di strano è la quantità di persone per strada che indossano la mascherina. Nelle case, però, è cambiato tutto. Madre e figlio vanno in ansia alla notizia che almeno per maggio non cambierà nulla. Tutto resterà fermo. Tutto, per loro, sono le scuole e il loro lavoro. Prima che cominciasse l’emergenza si piazzavano ogni mattina davanti a una scuola elementare con il loro piccolo chiosco di cibo.

Margarita racconta dettagliatamente come si svolgeva la loro giornata: “Ci alzavamo verso le 5 o le 6 del mattino e cominciavamo a lavorare. Preparavamo tacos dorados, zuppa di petto di pollo, cornetti, hamburger, frullati di frutta. Mio figlio mi aiutava preparando e tagliando i dolci. Ci incamminavamo verso le 8.40. Per le 9.30 doveva essere tutto pronto, visto che i ragazzi hanno solo 20 minuti di ricreazione. Gli davamo da mangiare attraverso il cancello. Per le 10 ci eravamo già incamminati verso casa, facevamo colazione, ci cambiavamo e tornavamo alla scuola con snack, dolci, gelato allo yogurt. Nel pomeriggio tornavamo a casa e cominciavamo a preparare da mangiare per il giorno successivo”.

Fuori dal mercato
Potevano ritenersi soddisfatti quando tornavano a casa con cinquecento pesos (meno di 20 euro), ma molte volte guadagnavano solo 50 o 60 pesos. Altre volte mettevano insieme qualche soldo in più raggiungendo la madre di Margarita, che ha un chiosco di fronte a un’altra scuola, e che ha insegnato a figlia e nipote tutto quello che sanno. Durante le vacanze scolastiche guadagnavano qualcosa vendendo nei tianguis, i mercati locali. Tutto questo adesso è un miraggio. Le scuole sono chiuse e Margarita e Kevin Iván non possono andare nei mercati, dato che le cose che vendono non sono generi di prima necessità.

Margarita e suo figlio fanno parte di quel segmento della popolazione che il governo messicano ha definito “quelli che non si possono fermare”, un eufemismo per dire che le misure di distanziamento sociale non possono essere applicate a loro. Un segmento in cui rientrano trenta milioni di persone che si dedicano al commercio informale, il 56 per cento dell’economia della seconda potenza dell’America Latina, un paese dove il salario minimo è di 123 pesos (4,50 euro), e dove lavorare senza essere iscritti alla previdenza sociale non è illegale.

Il commercio informale genera il 22 per cento del pil messicano. Quindi è impossibile pensare che questo paese di 130 milioni di persone possa essere messo sotto chiave. Il Messico ha basato totalmente la sua politica di contrasto al virus sul modello sentinella, che diede buoni risultati durante l’epidemia di H1N1 del 2009, e consiste nel fare stime sulla propagazione del virus e, quindi, anticiparlo utilizzando misure di contenimento, come l’isolamento.

Madre e figlio contano i giorni: non quelli che li separano dal rientro al lavoro ma i giorni che mancano prima che finiscano i risparmi

Nonostante questo, ci sono state polemiche per via dei pochi tamponi fatti. Hugo López-Gatell, il sottosegretario alla sanità, si è difeso sostenendo che i test non sono così importanti. Con il passare delle settimane, di fronte alle pressioni dei governatori e delle istituzioni mediche, il governo è stato costretto a fare marcia indietro, mettendo a disposizione 300mila tamponi, che dovrebbero arrivare a mezzo milione nella fase tre dell’epidemia, quella in cui ci si aspetta un rapido aumento del numero di contagiati. Inoltre ha cercato di accelerare l’acquisto di materiale sanitario in Cina. Per aumentare la disponibilità di ventilatori per le terapie intensive, il presidente Andrés Manuel López Obrador è arrivato a chiedere al presidente statunitense Donald Trump di permettere al Messico di comprare questi macchinari negli Stati Uniti.

Margarita e Kevin Iván vivono reclusi dalla metà di marzo. Il fratello maggiore di lei, un maestro, li aveva avvertiti. “Era sabato, pensavamo che avremmo avuto una settimana di margine, ma lunedì avevano già sospeso le lezioni”, ricorda l’uomo, che ha dovuto rinunciare anche al suo passatempo preferito, i combattimenti di galli. Oggi se ne sta a casa a comporre versi rap sul virus.

Madre e figlio contano i giorni: non quelli che li separano dal rientro al lavoro ma i giorni che mancano prima che finiscano i risparmi. Almeno per il mese di maggio hanno abbastanza per la luce e per l’affitto. “I pochi risparmi che avevamo stanno finendo, è stressante non guadagnare nulla, se il lockdown non finisce…”.

I giorni vuoti lasciano spazio anche alle lamentele. Margarita si concentra sul governo, che non li aiuta. “In cambio del voto offrivano cibo, perché adesso non fanno lo stesso per aiutare la gente?”, dice, poi se la prende con il fatto che ogni giorno il governo manda un messaggio diverso. “La mattina dicono una cosa, il pomeriggio il contrario, e il giorno dopo quello che dicevano due giorni prima”, assicura. Dice che questa comunicazione genera confusione, dato che sono in molti nel quartiere a pensare che il virus sia un’invenzione.

Lei e suo figlio, comunque, prendono sul serio i provvedimenti sul distanziamento sociale e l’obbligo di indossare le mascherine. “Che il virus esista o no, preferisco prevenire che lamentarmi dopo”, dice tra le risate, come se non avesse già abbastanza da combattere ogni giorno.

(Traduzione di Pietro Cecioni)

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