28 gennaio 2022 15:26

Negli ultimi due anni abbiamo imparato che il covid-19 può avere gravi ripercussioni sul cervello, sia a breve sia a lungo termine.

Oggi gli scienziati cominciano ad avere un quadro più chiaro di come il coronavirus potrebbe determinare una serie di disturbi che includono nebbia cognitiva, depressione, confusione e perfino ictus. Le scoperte più recenti suggeriscono che di rado il virus infetta le cellule cerebrali in modo diretto, mentre danneggia il cervello indirettamente causando coaguli di sangue o stimolando una risposta immunitaria nociva.

In base alle ultime ricerche, la notizia incoraggiante è che molte di queste pericolose alterazioni del cervello probabilmente sono reversibili.

Sofferenza costante
Fin dall’inizio della pandemia, è emerso che i casi gravi di covid-19 potrebbero portare a ictus, confusione e debolezza muscolare. Si stima che, nelle prime fasi dell’infezione, circa una persona su quattro sperimenti una forma di depressione, e una su otto una forma d’ansia. A lungo termine, però, il prezzo da pagare al livello neurologico e mentale potrebbe essere ancora più alto: un’analisi delle cartelle cliniche di più di 230mila pazienti guariti dal covid ha dimostrato che più o meno un terzo dei pazienti ha continuato a riportare disturbi neurologici o psichiatrici fino a sei mesi dopo aver contratto il virus.

In un sondaggio condotto negli Stati Uniti su quasi mille persone con sintomi da covid a lungo termine (long covid), il 47 per cento degli intervistati ha riferito di soffrire in modo costante di nebbia cognitiva, difficoltà di concentrazione o perdita delle memoria.

Diversi studi condotti sulle autopsie di persone decedute in seguito al covid hanno individuato tracce del virus o proteine virali nel cervello

Non è raro che un’infezione virale abbia degli effetti sul cervello: lo si è visto con il virus zika, con la polio, con il morbillo e con l’influenza. Ma il tasso di sintomi persistenti, come disturbi mentali o ansia, sembra essere più alto in chi ha contratto il covid-19 che non, per esempio, l’influenza.

Alcuni neuroscienziati hanno ipotizzato che potrebbe essere il virus stesso a causare questi sintomi attaccando le cellule del cervello, cosa che sono in grado di fare anche altri virus, come l’hiv e quello responsabile dell’herpes. Ma il quadro che ne emerge, sostiene Serena Spudich della Yale university, suggerisce che anche se il coronavirus può penetrare nel cervello non sembra replicarsi al suo interno o danneggiarne direttamente il tessuto.

Diversi studi condotti sulle autopsie di persone decedute in seguito al covid hanno individuato tracce del virus o proteine virali nel cervello. Ma se il virus si fosse replicato nel tessuto cerebrale, sottolinea Spudich, avrebbero dovuto esserci ammassi di cellule contaminate, che invece erano assenti.

Inoltre, le cellule infette di solito sono circondate da cellule immunitarie, e nemmeno queste sono state rinvenute nel cervello dei malati, continua Spudich, che, insieme ad Avindra Nath del National institute of neurological disorders and stroke (una struttura statunitense che svolge ricerche sui disturbi del cervello e del sistema nervoso), ha raccolto alcune delle scoperte più recenti.

Una sorpresa
Il virus era presente nel liquido che bagna il cervello e nel midollo spinale, ma si tratta di un evento raro. “Su centinaia e centinaia di studi pubblicati, meno del 3 per cento ha evidenziato la presenza del coronavirus nel liquido cerebrospinale dei pazienti con casi acuti di covid-19”, conferma Spudich. “Ed è stata una sorpresa”.

Altri due fattori sembrano giocare un ruolo importante. Uno è l’impatto sui vasi sanguigni. Diversi studi hanno individuato dei trombi anomali nelle persone che hanno sofferto di covid-19 in forma grave, e questi trombi potrebbero causare degli ictus. Le autopsie su chi è deceduto in seguito alla malattia hanno riscontrato danni ai vasi sanguigni nel cervello: le pareti dei vasi si assottigliano, e i vasi stessi sembrano rilasciare delle proteine che potrebbero innescare una risposta immunitaria.

Proprio questo secondo fattore, la risposta immunitaria con produzione di anticorpi, potrebbe essere tra le principali cause dei disturbi neurologici e mentali, compresi quelli che proseguono per mesi dopo l’infezione.

Esaminando campioni di liquido cerebrospinale prelevati da persone affette da covid-19, i ricercatori hanno riscontrato delle mutazioni nelle cellule immunitarie, e sembra che alcune di queste producano un numero maggiore di sostanze chimiche che potrebbero rivelarsi tossiche per determinate cellule cerebrali. Le autopsie invece hanno individuato in tutto il cervello una maggiore attività della microglia, preposta alla difesa immunitaria del sistema nervoso centrale.

Mission Viejo, California, Stati Uniti, 27 gennaio 2022. Un medico visita una paziente nell’ospedale Providence Mission. (Shannon Stapleton, Reuters/Contrasto)

Non è ancora chiaro se qualcosa di simile si stia verificando nel cervello di chi si è ammalato in forma lieve e può ancora soffrire di long covid. “Le persone che hanno trascorso la convalescenza a casa”, afferma Spudich, “hanno accusato forme lievi di covid-19 e si sono riprese, ma in un secondo momento si sono rese conto di avere difficoltà di concentrazione e problemi di memoria, facevano fatica a lavorare e soffrivano di gravi disturbi dell’umore come ansia e depressione”.
Lei stessa ha trattato casi simili. “Queste persone all’improvviso hanno sviluppato forme di delirio, paranoia, comportamenti violenti… sintomi davvero terribili”, racconta. Un paziente non ha risposto ai farmaci antipsicotici, così il team di Spudich gli ha proposto una terapia messa a punto per rallentare il sistema immunitario, registrando un certo successo. Quando successivamente hanno esaminato il liquido cerebrospinale del paziente, gli specialisti hanno trovato degli anticorpi che potrebbero avere attaccato il tessuto cerebrale.

I meccanismi delle risposte immunitarie
Naturalmente questo è solo un caso, e i sintomi del long covid possono variare molto da persona a persona. È anche difficile determinare con certezza quali di questi sintomi siano innescati dal covid-19 e quali siano invece casuali dopo l’infezione, ma le prove raccolte suggeriscono che i cambiamenti duraturi nella risposta immunitaria sono più comuni dopo il covid-19 che in seguito ad altre malattie come l’influenza.

Il passo successivo è comprendere i meccanismi delle risposte immunitarie. Michelle Monje e i suoi colleghi della Stanford university in California hanno fatto dei passi avanti. Come neuro-oncologa, Monje ha notato delle similitudini tra la nebbia cognitiva da long covid e i disturbi del pensiero e della memoria causati dalla chemioterapia contro il cancro.

Ricerche precedenti hanno dimostrato che i sintomi successivi alle terapie antitumorali sembrano essere dovuti alla reazione immunitaria innescata dai farmaci, con il rilascio di sostanze chimiche che provocano un’infiammazione e danneggiano le cellule del cervello. La microglia si infiamma, in particolare nella sostanza bianca (costituita dalle fibre nervose che uniscono l’encefalo al midollo spinale), influenzando il comportamento delle altre cellule cerebrali. Di conseguenza si riduce la mielina (una sostanza con funzione isolante e protettiva) intorno ai neuroni, vengono distrutte altre cellule cerebrali e il numero di nuovi neuroni generati è inferiore.

Per capire se qualcosa di simile si verifichi anche nelle persone affette dal covid lungo, Monje e i suoi colleghi hanno condotto degli studi sui topi, che vengono infettati dal coronavirus ma solo nelle vie respiratorie, perché il virus non è in grado di colpire direttamente le loro cellule cerebrali, dal momento che questi animali non hanno il recettore Ace2.

Un messaggio di speranza
Stando a quanto i ricercatori sono riusciti a capire, i topi infettati presentavano sintomi lievi, spiega Monje. Ma nel loro sangue e nel liquido cerebrospinale hanno rinvenuto sostanze chimiche che facevano supporre che al livello cerebrale stessero sperimentando i medesimi effetti di una chemioterapia. Il cervello dei topi mostrava inoltre gli stessi cambiamenti nella microglia e una minore produzione di nuove cellule cerebrali. “Abbiamo osservato dei parallelismi davvero evidenti”, conferma Monje.

Per quello studio, che non è ancora stato sottoposto a revisione paritaria, i ricercatori hanno esaminato anche il tessuto cerebrale di nove persone morte a causa del covid-19 o mentre l’infezione era in corso. Alcuni dei decessi erano attribuibili alla malattia, altri no (una persona per esempio era caduta dalle scale), ma la microglia, dice Monje, sembrava comportarsi allo stesso modo nella materia bianca di tutti e nove i cervelli.

Gli scienziati hanno notato che nei topi era presente la CCL11, una particolare proteina prodotta dal sistema immunitario. In passato questa sostanza è stata associata a disturbi cognitivi negli esseri umani, e a quanto pare la sua presenza nell’organismo aumenta con l’età. Grazie a un altro esame, Monje e i suoi colleghi hanno scoperto che i livelli di CCL11 erano più alti nei campioni di sangue dei pazienti con covid lungo che presentavano sintomi di alterazioni cognitive rispetto a quelli di chi soffriva di long covid ma non aveva quei sintomi.

Nel complesso, tali risultati rafforzano l’ipotesi che dalle risposte immunitarie dell’organismo possano dipendere alcuni tra gli effetti del covid-19 sul cervello. Ma mentre conseguenze gravi come l’ictus possono causare danni permanenti, secondo Monje “niente di ciò che abbiamo documentato nel nostro studio dovrebbe essere irreversibile”, e ritiene che sia possibile sviluppare delle cure per rimettere in sesto il cervello. “È un messaggio di speranza”, dice.

Non tutte le ripercussioni sul cervello e sulla mente sono riconducibili a fattori immunologici o a coaguli di sangue. Depressione e ansia sono i disturbi più comuni diagnosticati a chi è guarito dal covid, e probabilmente molti sono legati all’esperienza della malattia, sostiene Maxime Taquet dell’università di Oxford.

Rimangono da chiarire diversi dubbi, per esempio quanto tempo possano durare i problemi neurologici e psichiatrici. In base a uno studio condotto da Taquet e dai suoi colleghi, a circa un terzo delle persone coinvolte sono stati diagnosticati sintomi fino a sei mesi dopo la malattia. “Dopo sei mesi non c’erano segnali che il numero di nuove diagnosi si stesse stabilizzando”, dice Taquet, che ha in programma di condurre ulteriori ricerche sulle diagnosi tra i dodici e i diciotto mesi successivi alla prima infezione.

Il ruolo del vaccino
Diversi neuroscienziati hanno ipotizzato che le conseguenze del covid sul cervello potrebbero esporre alcune persone a un rischio maggiore di patologie neurodegenerative come l’Alzheimer nel corso della loro vita, ma non è facile valutare se si tratti di un rischio elevato o meno, dato che la causa stessa dell’Alzheimer non è ancora chiara. “Non esistono prove che il covid possa generare problemi neurologici a lungo termine”, dice Spudich.

Al momento esistono prove contrastanti sul fatto che il vaccino sia in grado di proteggere contro alcuni effetti del covid lungo sul cervello. Una ricerca di Paul Kuodi e colleghi della Bar-Ilan University di Safed, in Israele, ipotizza che chi si ammala di covid dopo due dosi di vaccino non abbia maggiori probabilità di riportare sintomi come mal di testa e stanchezza rispetto a chi non si è infettato.
Ma Taquet e la sua équipe hanno esaminato oltre diecimila infezioni, contratte per lo più negli Stati Uniti, e hanno scoperto che mentre le vaccinazioni hanno ridotto i casi di malattie respiratorie gravi, non hanno influito sui sintomi da covid lungo e sui disturbi dell’umore e del sonno.

Un’altra questione di enorme importanza è se i bambini possano sviluppare disturbi cognitivi in seguito a infezioni lievi. Nei primi anni di vita, il nostro cervello cresce e si trasforma in modo significativo, e questo processo in qualche misura continua quasi fino ai trent’anni. “Vorrei capire quale impatto potrebbe avere il virus sullo sviluppo dei cervelli più giovani”, dice Monje. I ricercatori non sanno ancora se a livello cerebrale i giovani presentino la stessa risposta immunitaria al virus degli adulti. “Potrebbe essere, ma anche no, e questo mi preoccupa”.

“Credo che dovremmo fare molta attenzione con i nostri bambini”, conclude Spudich, “perché, semplicemente, è una cosa che non sappiamo”.

(Traduzione di Davide Musso)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico di divulgazione scientifica New Scientist.

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