08 gennaio 2021 10:54

Questo articolo è uscito sul numero 369 di Internazionale.

Come la maggior parte dei giornalisti, sono restio a far luce sulla magia del processo editoriale. Ma in più di vent’anni questa era la prima volta che la richiesta del direttore somigliava a un biglietto scritto da qualcuno prima di suicidarsi. “Spiegami una cosa, John: quale diavolo è il senso di tutto questo?”, diceva l’email (anche se era senz’altro più efficace prima che sostituissi pudicamente una parola con “diavolo”).

Curiosamente, la gente non fa altro che alludere più o meno alla stessa domanda, anche se pochi la formulano in termini così crudi o sono disposti a pagarmi perché cerchi di dare una risposta. E non lo dico certo per vantarmi: se foste nella mia situazione farebbero altrettanto con voi. Credono che io sappia qualcosa che nessun altro sa. Credono che io abbia trovato la risposta segreta a una domanda che, per paura o per imbarazzo, nessuno osa porre apertamente.

La mia situazione è questa: ho una malattia terminale che non mi consente di fare progetti realistici per più di un paio di mesi. Ho una voce che si è fermata quando la mia lingua è stata asportata, ho una dieta che dipende completamente dal frullatore e una quantità di dolore più che discreta quasi tutti i giorni. Per aggiungere la beffa al danno del cancro, non sento il bisogno e non riesco a trovare nessun conforto nella fede religiosa. Solo ogni tanto mi rifugio, legalmente o meno, in una dose minima di sostanze per sollevare il morale. Eppure la maggior parte delle volte, e nei limiti normali, sembro felice, perfino (considerata la mia disponibilità a scrivere articoli come questo) compiaciuto: qual è il trucco? È questo che vogliono sapere.

Certo, ho una bella casa, uno stipendio ragionevole assicurato da un lavoro comodo che mi consente di sfoggiare in pubblico una moglie e una famiglia amorevoli. Ho il sostegno di una cerchia di amici che assecondano i miei innumerevoli capricci. In questo senso immagino di avere tutto, o almeno quasi tutto quello che è possibile avere date le circostanze.

Eppure queste circostanze fanno una bella differenza: forse me la passo meglio di molti altri malati terminali senza lingua, ma non conosco una bilancia per pesare amici, famiglia e soldi contro la prospettiva di una vita lunga e sana. Se scambierei un figlio, un amico o la casa per una lingua nuova e delle analisi cliniche perfette? Non chiedetemelo neppure. E non solo perché non dovrò mai fare questa scelta.

Ma dal punto di vista di chi me lo chiede è un interrogativo giusto: quando ti resta così poco da vivere, per che cosa vale la pena di vivere?

La nostra mortalità
La risposta più facile è quella del poeta Philip Larkin, e cioè che non saremmo mai capaci di alzarci dal letto al mattino se avessimo una qualche percezione reale della nostra mortalità. E sembra una risposta avvalorata dalle statistiche. Benché la nostra veloce e invivibile vita moderna ci renda tutti depressi e ansiosi, l’anno scorso solo cinquemila persone sono state così disperatamente incapaci di misurarsi con tutto questo da uccidersi. Da un punto di vista statistico, il suicidio è sullo stesso piano di uno o due dei tumori meno comuni. Anche se non sappiamo per che cosa vale la pena di vivere, vogliamo tutti continuare a vivere. Ed è naturale che sia così: è per questo che siamo programmati. Una specie capace di prendere la vita o lasciarla non sarebbe certo arrivata fino a questo punto nella lotteria dell’evoluzione. Immagino che la morte sia un trauma indesiderato per la farfalla già vecchia dopo un giorno di vita così come lo è per l’inglese medio che ha raggiunto l’età in cui ci si deve aspettare la fine.

Prima che mi capitasse tutto questo a volte mi chiedevo come ci si deve sentire a 78, 82 o a 90 anni, quando ci si sveglia ogni mattina sapendo non tanto che oggi potrebbe essere il tuo ultimo giorno, quanto che ci sono comunque poche possibilità che la vita continui ancora a lungo.

Come fa il tour operator Saga, mi chiedevo, a vendere vacanze a tutti quei tipi anziani con i pantaloni con l’elastico e i sandali ai piedi? E i clienti cosa si aspettano di riportare dalla loro dolce crociera nel Mediterraneo? Ricordi? Sicuramente hanno già ricordi a sufficienza. Cosa puoi fartene dei ricordi quando hai soltanto qualche mese o qualche anno per goderteli? Come puoi rilassarti in crociera se ogni giorno ti svegli stupito di esserci ancora e angosciato all’idea che forse domani non ci sarai?

Una capacità di gioia limitata
Eppure eccomi qui: ufficialmente ho 47 anni, ma sono come un energico novantenne un po’ a corto di respiro e con buona parte delle sue facoltà, anche se non tutte. So che non ho molte possibilità di vedere più di un altro compleanno e malgrado tutto continuo a svegliarmi, come sempre, con lo stesso desiderio di cogliere l’attimo luminoso. Sono felice come sembro, è vero, ma è perché senza arrivare alla sociopatia o al fanatismo religioso avanzato siamo capaci di accogliere solo un certo quantitativo di felicità prima di esserne saturati. Abbiamo una capacità di gioia limitata, ma una capacità quasi infinitamente illimitata di… be’, non proprio infelicità, ma non-felicità.

Ed è per questo, immagino, che siamo spesso gratificati dalle varie forme di non-felicità personale – rabbia, delusione, invidia, odio, frustrazione, paura, alienazione – così come lo siamo dall’appagamento. Quest’articolo, per esempio, è una rarità nella stampa britannica, con il suo cinguettante positivismo e la sua imminente ingiunzione di vedere tutto rosa. A parte le storie di coraggio, impegno o fortuna individuale, gran parte degli articoli sono concepiti per indignare, sconvolgere, spaventare o comunque incoraggiare tutte le emozioni negative che sembriamo tanto apprezzare. 

Ma la verità è che nel mondo sviluppato – per la maggior parte di noi e per la maggior parte del tempo – la vita è infinitamente migliore di quanto non lo sia mai stata per qualsiasi generazione precedente. Da adolescente, come milioni di altri ragazzi, ero affascinato dall’utopismo di Notizie da nessun luogo di William Morris e dalla descrizione di una società dove regnavano l’eguaglianza e la giustizia sociale e dove non c’erano più paura, rabbia, gelosia e tutto il resto.

Il bello non era semplicemente che in quel mondo impossibile tutti avevano da mangiare in abbondanza, un tetto sulla testa e un lavoro gratificante. Il bello era che non si svegliavano mai sentendosi irritati, non invidiavano mai a nessun altro la sua maggiore felicità, non soffrivano mai per le diseguaglianze – non della distribuzione economica ma del livello di serotonina e della soglia di dolore.

Certo, lo so che per me è facile dirlo. So che in Gran Bretagna esistono la vera povertà e il bisogno, so che la forbice dei redditi si sta allargando e che la distribuzione della ricchezza diventa ogni giorno meno equa. E sì, so anche che per il pensionato infreddolito e per la ragazza madre emarginata allo stremo delle forze non è di nessun conforto sapere che tre o quattro generazioni fa la loro vita sarebbe stata considerata normale e persino relativamente desiderabile dalle masse infreddolite ed emarginate. Ma resta il fatto che, per la prima volta nella storia della nostra specie, la grande maggioranza di noi che viviamo in Occidente ha da mangiare più che a sufficienza, un posto relativamente caldo dove vivere, la possibilità di andare in giro per il paese e persino per il mondo quando ne ha voglia, un’abbondanza di risorse con cui potersi divertire e distrarre.

Abbiamo una necessità innata di un paio di porzioni di scontento nella dieta emotiva della nostra psiche

Capisco perché, quando dà informazioni sulla povertà in Gran Bretagna, il Roundtree Trust irrita i lettori del Daily Mail (o, più spesso, i suoi giornalisti) mettendo la televisione e il videoregistratore nell’elenco dei prodotti essenziali senza i quali una vita normale non è ritenuta possibile, ma non riesco a convincermi che la ragione di gran parte dell’infelicità abbia a che fare solo con lo squilibrio economico. Credo che sia dovuta anche all’innata necessità di un paio di porzioni di scontento come componente della dieta emotiva della nostra psiche.

Anche se non siete d’accordo con questa descrizione del paese nel suo insieme, consideratela una descrizione di voi e di me, quella parte della società che legge lunghi articoli sui giornali domenicali e che, stando a questa definizione, ha abbastanza reddito superfluo per permettersi il giornale e abbastanza tempo superfluo per leggerlo.

La settimana scorsa ho scritto un articolo sulla medicina alternativa. In sintesi ero, e sono, contrario a questo tipo di terapie perché credo che non funzionino per le vere malattie organiche.

Non voglio tornare su questa tesi, ma quello che nel mio articolo non avevo sottolineato è che il boom della medicina alternativa ha poco a che fare con il fallimento dei rimedi ortodossi per curare le malattie serie – la grande maggioranza delle persone con problemi cardiaci o con un tumore si sottopone giustamente alle terapie ortodosse – quanto piuttosto con la pretesa dei medici alternativi di poter affrontare malattie che i dottori ortodossi non riescono a diagnosticare, e tanto meno a curare.

Malattie del benessere
Sono, se volete, le malattie del benessere, le malattie che può permettersi una società con ben poco di cui preoccuparsi. Nei miei giorni ipocondriaci e precancerosi, continuavo a esporre al mio medico di famiglia vaghi sintomi di malattie ancor più vaghe, venivo spedito a fare analisi del sangue, esami per vedere se le mie palpitazioni cardiache erano il segnale di qualcosa di più organico della semplice predilezione per le sigarette, le nottate in bianco e una vita dissipata.

Sono le malattie che derivano da un eccesso di aspettative, dalla convinzione che ci si possa sempre sentire felici, a proprio agio, positivi e motivati. Ma per sentirsi così bene e così spesso bisogna essere piuttosto stupidi nel modo in cui la stupidità tende frequentemente a manifestarsi, cioè come mancanza di fantasia.

Ma poiché la maggior parte di noi non è stupida e ha abbastanza fantasia per teorizzare un mondo al di là dello spazio immediato e personale, ci creiamo preoccupazioni per cui le generazioni precedenti non avrebbero avuto tempo. Non è un caso, per esempio, che i diritti degli animali si siano trasformati in un movimento popolare solo con il benessere del dopoguerra. Solo i ricchi possono permettersi di essere schizzinosi con la pelliccia degli animali: nelle società polari dove si scuoia una foca oppure si muore di ipotermia, le opzioni degli animalisti sono più limitate.

Oppure ci preoccupiamo per la violenza televisiva, ma ci fermiamo raramente a riflettere sul fatto che la nostra è una delle pochissime generazioni recenti che vede quel tipo di violenza solo in televisione. Io, per esempio, non ho mai visto un cadavere in carne e ossa, ma dubito che il mio quadrisavolo sfuggito ai pogrom in Russia avrebbe potuto dire altrettanto, o anche qualcuno cresciuto in una grande città durante la guerra. I miei figli hanno visto soltanto una violenza da cartoni animati e ne sono comunque rimasti sconvolti; duecento anni fa un bambino di Londra sarebbe vissuto in una città circondata da morte, malattie, prostituzione, violenza e povertà a livelli che possiamo appena immaginare.

E lo stesso vale per la politica in generale. Fino a tempi relativamente recenti, i movimenti politici di massa ruotavano intorno ai diritti fondamentali – cibo, tetto, istruzione e autosufficienza. Il motivo per cui oggi meno gente vota o partecipa ai comizi è che per la maggior parte di noi quei diritti sono stati ottenuti. La cosa più vicina a una manifestazione politica a cui abbiamo assistito nell’ultimo anno non aveva niente a che fare con i diritti umani, con le sofferenze umane o con qualsiasi argomento che i miei antenati – o persino io stesso da giovane – avrebbero considerato il genere di cose capaci di annientare un paese. No, quella manifestazione era sul prezzo della benzina, e anche se a un certo livello riguardava le condizioni di lavoro di camionisti e agricoltori, il suo vero obiettivo erano i costi che dobbiamo sopportare per andare ogni giorno al lavoro in automobile.

Quanto fosse assurdo considerare quella campagna come un capitolo della storia del movimento dei diritti umani è diventato particolarmente evidente quando i camionisti si sono appropriati dello spettro della Jarrow March (1) per far passare il loro messaggio sostanzialmente piccolo borghese. Ma in fondo è questa la natura della politica moderna e oggi le vecchie icone politiche si possono vedere solo nella pubblicità dei telefoni cellulari o delle vacanze all’estero, dove slogan come “Partecipa alla rivoluzione!” e “Grida la libertà!” sono riesumati per una generazione che non sa niente della loro provenienza. Proprio come abbiamo malattie del benessere che sostituiscono quelle reali, ora abbiamo anche una politica del benessere.

La semplice risposta alla domanda “Quale diavolo è il senso di tutto questo” è che questo è il senso di tutto

Il che sembra avermi allontanato dal cinguettio che avevo promesso e, cosa ben più importante, dalla domanda del direttore.

E allora ecco la mia risposta.

Questo è il senso. È leggere il giornale la domenica mattina mentre ti chiedi se hai voglia di andare alla festa di Capodanno dei tuoi vicini. È arrabbiarsi con me perché ho opinioni diverse dalle tue o perché non riesco a esprimere le tue come le avresti espresse tu. È la colazione che hai appena fatto e la cena che stai per mangiare. Sono gli atti casuali di gentilezza che ancora, per magia, prevalgono sugli atti di inciviltà o di scortesia. È rileggere Grandi speranze di Charles Dickens e pensare a chi vincerà la corsa delle 15.30 a Haydock Park. È poter rivedere vecchi episodi di un telefilm alla tv via satellite ogni volta che ne abbiamo voglia, poter scegliere fra una trentina di cereali diversi per colazione e sette marche di olio extravergine d’oliva al supermercato. È amare ed essere amati, è fare la cosa giusta ed essere ricordati con rimpianto un giorno quando non ci saremo più.

È questo il senso. Non è l’inferno o il paradiso o l’amore di Cristo o Allah o Geova, perché anche se queste cose esistono, non è necessario che esistano per poter andare avanti.

È soprattutto, penso, una questione di tempo che passa. E l’unica cosa che io so e che voi non sapete è che il tempo passa con lo stesso ritmo e sostanzialmente nello stesso modo che viviate per 48 o per 148 anni. Perché sono felice? Perché sono vivo. E la semplice risposta alla domanda “Quale diavolo è il senso di tutto questo” è che questo è il senso di tutto. Non siete felici? Sì che lo siete: questa, qui e ora, è la felicità. Godetevela.

(1) Nel 1936 duecento persone marciarono per 480 chilometri da Jarrow a Downing Street, a Londra, per sensibilizzare il governo britannico sui loro problemi di lavoro.

(Traduzione di Giuseppina Cavallo)

Da sapere
Vivere con il cancro

John Diamond era un giornalista britannico. Nel 1998 gli era stato diagnosticato un cancro. Da allora si era sottoposto a molte cure ed era stato operato più volte. In uno di questi interventi gli era stata asportata la lingua e non aveva più potuto parlare. È morto il 2 marzo 2001, a 47 anni, poco più di due mesi dopo aver scritto questo articolo. Dopo aver lavorato per la radio, scriveva per l’Observer e il Times, dove pubblicava una rubrica sulla sua malattia. Diamond è anche autore di un libro, C: Because cowards get cancer too (C: perché anche i codardi hanno il cancro, Vermillion), ed è il protagonista di un documentario che lo ha seguito attraverso diagnosi e operazioni.


Questo articolo è uscito sul numero 369 di Internazionale. Era stato pubblicato sull’Observer.

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