08 maggio 2019 11:57

“Mi ero reso conto molto presto che nessun evento viene mai riportato in modo corretto in un giornale”.
George Orwell

Battaglia finale. Se cercate queste parole su Google i risultati indicheranno tre titoli importanti, come se questo fosse l’anno in cui tante guerre giungeranno alla fine. Prima di tutto Trono di spade (l’unica saga più complicata di quella libica). Finalmente dopo otto anni l’inverno è arrivato e l’esercito dei morti ha marciato.

Poi la battaglia finale degli Avengers della Marvel, che metterà fine a una serie di ventidue lungometraggi usciti in undici anni. Infine, secondo molti ci troveremmo davanti alla battaglia finale libica, ma io lo so che questa non è sul serio la battaglia finale, nessuna guerra potrebbe mai mettere fine a tutte le guerre in Libia.

A cinque anni dall’inizio della seconda guerra civile, nel 2014, alla fine il cosiddetto Esercito nazionale libico (Enl) di Khalifa Haftar ha marciato alla volta di Tripoli per affrontare l’alleanza delle forze di protezione di Tripoli (un insieme di gruppi armati che combattono sotto l’egida del governo di accordo nazionale di Fayez al Sarraj).

Scrivere nonostante tutto
Ho cominciato a scrivere per Internazionale nel 2016, dopo aver incontrato Andrea Segre al Locarno film festival nel 2015. È stato lui ad avere l’idea delle mie corrispondenze da Tripoli. Da allora sono cambiate tante cose attorno a me, e nonostante tutto ho continuato a scrivere.

Vi ho raccontato cosa succedeva, ho condiviso con voi pensieri e osservazioni, vi ho fatto sedere accanto a me sulla mia sedia preferita nella mia soffitta, con caffè e sigarette, e ci siamo scambiati storie sulla mia adorata Tripoli. Al suono delle armi da fuoco e dei bombardamenti, con la sinfonia dei generatori in sottofondo ho scritto per voi, quando non riuscivo a piangere ho scritto per voi, e quando avevo paura… anche allora ho scritto per voi.

Sono in tanti a pensare che se c’è una cosa di cui sono un esperto è la Libia, perciò volente o nolente questo è di fatto diventato il mio lavoro. Sono quello che conosce la Libia. Ed è vero, conosco molto bene la Libia, le sue contraddizioni, la sua storia più nota e quella nascosta, il suo complicatissimo campo minato politico, le sue milizie, i suoi trafficanti, i suoi funzionari e le sue posizioni in continuo mutamento. Sono arrivato in Italia alla fine di marzo, e mi sono messo a lavorare al mio ultimo progetto, il documentario-spettacolo teatrale Libya back home. Poche settimane dopo a Tripoli è scoppiata la guerra e mi sono ritrovato bloccato qui, a osservare la guerra dall’esterno.

Perfino le informazioni e i dati di fatto basilari cambiano in modo radicale da una fonte d’informazione all’altra

Ho imparato sulla mia pelle che è impossibile fare affidamento sulle notizie diffuse da tutti gli organi di informazione di Tripoli o che si occupano di Tripoli, perché sono divisi in due schieramenti a sostegno di una delle parti in guerra e manipolano il racconto dei fatti per fare gli interessi della loro fazione. Non è una novità: sappiamo tutti che la prima vittima di tutte le guerre è la verità. La cosa particolare del caso libico tuttavia è che perfino le informazioni e i dati di fatto basilari, come per esempio il movimento delle truppe sul campo, cambiano in modo radicale da una fonte all’altra. Perciò se su un sito di notizie leggete che Haftar è avanzato in un determinato settore, sul versante opposto leggerete che Al Sarraj ha risposto all’attacco di Haftar ed è riuscito a respingere i suoi gruppi armati.

Nessuno è al sicuro
Ogni sera a Roma bevo qualcosa con Andrea Segre, mi lamento della mia giornata e provo a chiamare a casa, a sentire i miei familiari e i miei amici per assicurarmi che stiano bene e capire qual è la situazione. Andrea ha chiamato il mio rituale quotidiano “Kelly-telefono-casa” (i miei amici mi chiamano Kelly). Abbiamo deciso perciò di condividere con voi qualcuno dei miei tentativi di chiamare casa.

“Ehi, come stai? Va tutto bene? Grazie di avermi chiesto se va tutto bene”.

A parlare così è Nada. Ha usato l’espressione che usiamo a Tripoli per salutarci e per chiederci come va. Tradotta letteralmente suona più o meno “com’è il tempo?”, o “com’è l’atmosfera?”: in arabo c’è un’unica parola che può indicare entrambe le cose, un po’ come la parola italiana “clima”. Le avevo lasciato un paio di messaggi audio chiedendole come stava e quale fosse la situazione a Tripoli e dopo qualche giorno dal mio ultimo messaggio finalmente mi ha risposto con la sua voce calma.

“Sto bene, la situazione qui è… be’, ci sono i bombardamenti, ma sono lontani, io vivo a (…), perciò i bombardamenti sono molto lontani, perché adesso gli scontri sono a Khallet Alforjan, Ain Zara, Al Swani e sulla strada per l’aeroporto. Che dio aiuti le persone che vivono lì, davvero”.

Vale la pena osservare che quello che lei descrive come molto lontano dai bombardamenti in realtà si trova a non più di 27 chilometri di distanza. Per i libici però questo significa comunque lontano dagli scontri. Vive nella zona nord di Tripoli, non distante da dove abita la mia famiglia, perciò so quanto quei rumori possano essere crudeli e vicini, soprattutto di notte. E so che nessuno è al sicuro quando un “casuale bombardamento di origine ignota” decide di rovesciarsi sul nord di Tripoli.

Dopo un breve sospiro prosegue.

“Naturalmente qui la situazione è strana. C’è un generale senso di depressione e uno stato di torpore. Quasi tre attività su quattro sono ferme. Io non lavoro molto e nemmeno gli altri. Alcuni si presentano ancora a lavoro, altri non lo fanno. Un’altra cosa strana è che quando vai nei quartieri di Khallet Alforjan, Ain Zara e altri posti del genere pensi ‘ma allora è vero, c’è la guerra!’. Sai, senti che c’è un problema, che la situazione è tesissima, come si vede al telegiornale. Però quando vai per esempio in centro o ad Al Dahra, El Nofleyen, Al Seyaheyya e Ghut Shaal o in altri posti ancora, anche ad Abu Salim che è già più vicina ad Hay al Akwakh, dove ci sono stati dei bombardamenti negli ultimi giorni, è come se la guerra non ci fosse affatto. I negozi sono aperti, la gente va in giro a passeggio, c’è tanta folla e tanto traffico, i bar sono aperti. Perciò non capisci cosa sta succedendo. Non c’è lavoro, o comunque non ce n’è molto, ma al tempo stesso c’è tantissimo movimento, è davvero strano”.

Queste cose mi hanno sempre colpito: il modo in cui la città vive una doppia vita e i suoi abitanti vivono in una condizione frammentata, di costante assenza di guerra e assenza di pace. E mi colpisce fin dove riusciamo ad arrivare per ignorare la situazione, perfino quando la guerra è a pochi chilometri di distanza e quando nel sud della città più di cinquantamila persone sono state costrette a lasciare le loro case e a cercare riparo nella zona nord.

La città non riesce a capirsi, non riesce a decidere se è o non è in guerra

Mi sono ricordato di una conversazione con un’amica qualche anno fa a Roma. A un certo punto lei mi aveva detto: “Credo che tutti noi ci poniamo l’obiettivo di essere un tutt’uno con noi stessi mentre viviamo le nostre vite. Tutti noi abbiamo diversi frammenti di noi stessi, però mano a mano che cresciamo e andiamo avanti riduciamo sempre più la distanza che li separa, e alla fine tutti si uniscono”. Aveva cominciato la frase tenendo le mani distanti tra loro e mentre parlava le avvicinava come se fossero due persone, e continuava ad accorciare la distanza tra loro, finché quando aveva finito di parlare le due mani si erano toccate.

Allora ho pensato che con parole molto semplici era riuscita a darmi la migliore definizione possibile di ciò che è la vita e la crescita. Adesso mi sembra che descrivano molto bene anche la condizione di Tripoli. Il nord e il sud proseguono distanti tra loro, incapaci di incontrarsi. La città non riesce a capirsi, non riesce a decidere se è o non è in guerra. Da una parte c’è gente che muore ogni giorno, dall’altra la gente si sposa.

Una persona si ubriaca per tutta la notte e al mattino va alla moschea. Una persona maledice l’Italia nei bar mentre sorseggia un caffè macchiato italiano, dopo essersi assicurata che per farlo abbiano usato chicchi di caffè italiano, e guarda il campionato italiano in tv. Nel frattempo l’intero bar è alimentato dalla corrente di un generatore mentre la città affonda in un ennesimo taglio dell’energia elettrica perché gli scontri a sud hanno danneggiato diverse centraline elettriche.

Nada cercava di spiegarmi come si sentiva in questi giorni, come se nemmeno lei riuscisse a decidere se stava bene o no. Era come se dentro di lei si scontrassero emozioni contrastanti che, come il nord e il sud di Tripoli, rifiutavano di incontrarsi e fondersi, di diventare un tutt’uno con il dolore della città e con la sua realtà, di soccombere alla verità che quella in cui viviamo è una guerra e che ignorarlo non cambierà le cose: “Be’, il morale è normale, me lo chiedono tutti e io rispondo che sto bene, anche se a dire la verità mi sento un po’ a disagio. Se avessi soldi a sufficienza e un visto me ne andrei da qualche parte; se avessi solo i soldi andrei almeno in Tunisia per poter cambiare aria. Ci resterei solo per due o tre giorni, sul serio. Ho bisogno di viaggiare, mi sento strozzata, strozzata, completamente strozzata! Ma nonostante tutto questo, grazie a dio sto bene e anche mia madre sta bene… sì, grazie a dio stiamo tutti bene. Dimmi di te, come stai?”.

Be’, io sto ancora camminando, c’è tanta strada da fare prima che tutti i frammenti possano a un certo punto riunirsi.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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